Castelfrigo1

A 28 anni dal crollo del Muro tra i nuovi schiavi delle carni: che fare?

“Signor Padrone non si arrabbi che al gabinetto vorrei andare”, cantava alla fine degli anni ’60 Dario Fo ironizzando sul fatto che vi fossero fabbriche in cui veniva stabilito un tempo di tre minuti massimi a lavoratore per poter andare in bagno senza compromettere l’efficienza della catena produttiva. Erano tempi duri in cui la grande spinta del boom economico in Italia gettava sul campo pesanti questioni sociali che tuttavia trovavano attenzione e considerazione da parte di più forze sociali e politiche, capaci di mobilitare le masse e ottenere conquiste storiche frutto di battaglie imponenti. Un lontano passato, dovremmo credere.

Pochi giorni fa, invece, ricorrevano i 28 anni dalla caduta del Muro di Berlino e va detto che rivedere le immagini televisive di quei giorni fa un certo effetto. Quegli occhi ricolmi di gioia, fiducia, speranza in un avvenire di ritrovata libertà, diritti, pace e unità fra i popoli.
 Fa effetto, si diceva, se poniamo su due piatti quelle che erano le aspettative del momento e la realtà che ci circonda mentre state leggendo.

Cos’è accaduto in questi anni? Raccogliamo oggi i frutti di decenni di liberismo sfrenato e incontrollato, di un’adesione totale ed incondizionata al mito della finanza e di un mercato che si autoregola, dell’accettazione di fatto dello stato del mondo così com’è, della rinuncia ad immaginare un modello di sviluppo alternativo e sostenibile e ad un ruolo di controllo da parte dello Stato. Frutti definitivamente marciti con la crisi economica del 2007.
Quella del 2017 è una società che si osserva allo specchio frantumata e divisa, in preda a guerre, muri, nazionalismi e diseguaglianze sempre più aspre. Ci troviamo di fronte ad una devastante crisi sociale, democratica e ambientale. I diritti e lo stato sociale arretrano, la povertà, il precariato e l’emarginazione avanzano, la ricchezza è sempre più concentrata nelle tasche di pochi.

E qui torna prepotentemente in scena la realtà, con i suoi esempi più sconvolgenti ma drammaticamente reali. Chi mai avrebbe pensato che oltre 50 anni dopo quella canzone di Dario Fo sarebbe, ironia della sorte, tornata attuale? E’ il caso della Castelfrigo, azienda di carni del modenese (le famose eccellenze del Bel Paese) in cui lavorano in appalto quasi 130 soci lavoratori di due cooperative che, annunciando la cessazione d’attività, hanno aperto la strada a licenziamenti collettivi. Lo sciopero prosegue da oltre due settimane e viene la pelle d’oca ad ascoltare le storie denunciate: racconti di vero e proprio sfruttamento tra stipendi miseri, turni di 15 ore, mancata applicazione dei contratti e addirittura nemmeno i tre minuti per il gabinetto, pena il congedo. Forte è, inoltre, il sospetto che si tratti di cooperative false, cosiddette spurie, secondo un fenomeno tristemente assai diffuso in Emilia dove cerchie ristrette di persone, andando contro regole e princìpi cardine del mutualismo cooperativo, danno vita e morte in maniera rapida e frequente a società unicamente volte ad accumulare profitti, sulla pelle dei soci lavoratori, in gran parte stranieri e dunque costretti sovente ad accettare di lavorare in tali condizioni per non rischiare di perdere il permesso di soggiorno.

Tutto ciò in una delle aree più moderne e sviluppate del Paese, terra di civiltà e a lungo frontiera d’avanguardia nella lotta per dignità e diritti sociali, sotto un silenzio assordante e un immobilismo generalizzato di gran parte dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Ma è nel mondo intero che le peggiori contraddizioni esplodono sotto i nostri occhi troppo poco increduli, indignati e sempre più rassegnati e anestetizzati.

E’ davvero possibile credere che di fronte ad un simile incubo non esista risveglio? Che la condanna a questo modello ormai insostenibile sia definitiva, necessaria e priva di qualsivoglia opzione?
Io non credo. Non mi rassegno all’idea che non possano esserci alternative alle epoche di cui quel Muro è stato spartiacque, a ciò che era prima di quel 9 novembre 1989 e ciò che è stato dopo. Non mi rassegno all’idea che manchi una Sinistra protagonista in questa fase.

La soluzione non è riproporre forme o modelli del passato ma avere il coraggio e la forza di compiere una nuova missione storica, rispondere a un dovere morale e ad una responsabilità a cui non possiamo più sottrarci: unirci nell’ideare un pensiero nuovo, dando sostanza ai nostri valori di sempre. Il faro verso cui navigare è un nuovo Socialismo, all’altezza delle sfide dell’oggi e del domani. Ancor prima però, alla base di tutto occorre un imprescindibile e sostanziale sforzo culturale che ribalti schemi e parametri del passato e compia una vera e propria rivoluzione di pensiero. Per ricostruire forti tessuti sociali serve riaffermare la centralità dell’uomo, della sua vita e della sua felicità, avere la forza di superare il paradigma che riconosce l’individuo unicamente in funzione dell’economia e del consumo in un cupo circolo vizioso. Come disse in occasione del G20 del 2012 l’allora Presidente Uruguayano Mujica, “Non si tratta di regredire all’uomo delle caverne, né di fare un monumento all’arretratezza. E’ che non possiamo indefinitamente continuare ad essere governati dal mercato, ma dobbiamo governare il mercato“. Su questi fondamentali, si può innestare un’idea di società più giusta, basata sulla progressività fiscale, sulla sostenibilità ambientale, su una maggiore redistribuzione del reddito e su una ritrovata e rinnovata centralità del pubblico che non si limiti allo statalismo “anni ’70” ma sappia trovare i giusti equilibri. Quello che, insomma, Enrico Rossi auspica in “Rivoluzione Socialista”:
“Abbiamo il potere di costruire un mondo per tanti e non per pochi.
Un grande ideale di liberazione che si annuncia travolgente. Sta a noi organizzare intorno ad esso la partecipazione, la formazione e la militanza delle giovani generazioni”.

Nella foto di copertina: Manifestazione lavoratori Castelfrigo (Modena)

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