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Capitalismo. Due o tre cose che so di lui

Riproponiamo su L’Argine un articolo del 2014 di Alfonso Musci pubblicato su Il Pettirosso. E’ di estrema attualità ancora oggi.

La perdurante sopravvivenza e rigenerazione del capitalismo (o dei capitalismi) e dei suoi effetti distruttivi o costruttivi suggerisce che altrettanto perdurante può essere e sarà la sua critica. Critica come studio o critica come ‘demistificazione’ (Entmystifizierung), nei termini del Zur Judenfrage (Sulla questione ebraica, 1844) di Marx.

Uno dei più visibili elementi di discontinuità rispetto al passato più recente, almeno sul piano della teoria, risiede per ora nel ritorno della macro analisi e delle ‘visioni’ dall’alto. Frutto di quello che David Harvey (geografo e politologo autore di The Enigma of Capital, 2010) ha chiamato shock cognitivo da interruzione diflusso di capitale’. Alla domanda sul motivo della mancata previsione del sopraggiungere della crisi, rivolta nel 2008 dalla Regina Elisabetta agli economisti della London School, – ricorda Harvey – sarebbe giunta risposta solo dopo sei mesi. Con una lettera aperta in cui, gli accademici inglesi – intenti per anni a parcellizzare e isolare i problemi e i dettagli al microscopio – si scusavano con sua Maestà, dichiarando di aver perso di vista il “rischio sistemico”.

La consapevolezza di un “rischio sistemico” e una correlata ‘visione’ d’insieme saranno d’ora in poi le frontiere del nuovo ordine mentale, con cui ogni sinistra – pena la sopravvivenza – avrà l’obbligo di misurarsi. In questa rassegna mi limiterò solo ad alcuni casi non italiani, scelti molto liberamente. In Italia, fatta eccezione per Luciano Gallino e Salvatore Biasco, risulta ancora ampio lo scarto tra le analisi intellettuali e la consapevolezza politica. Il caso internazionale più eclatante di una ‘svolta’ cognitiva è rappresentato da Thomas Piketty. Il suo Le capital au 21e siècle (ampiamente digerito; anche dalla critica roditrice dei topi) è assieme critica come studio e critica come demistificazione. R>g è la formula che ne riassume la critica (in cui r sta a indicare il tasso d’interesse da capitale, mentre g il tasso di crescita dell’economia). Secondo Piketty mentre r avrà d’ora in poi una crescita media di 4-5 punti all’anno, g ne avrà una di solo 1-1,5, col risultato di un forte squilibrio a favore della rendita da capitale e a sfavore della rendita da lavoro, di una polarizzazione della ricchezza da un lato e di un’estensione della povertà dall’altro, secondo un arcaico modello piramidale che potrebbe riproporsi come ‘forma’ simbolico-sociale prevalente del futuro. Potrebbe dico, perché i numeri di Piketty dimostrano – al contrario di quanto dicono i detrattori – che dall’inizio del Novecento – anche se le diseguaglianze sono rimaste ancora grandi (anzi grandissime) – il capitale si è meglio distribuito, proprio grazie alla critica del capitalismo e all’azione delle socialdemocrazie. Se 90 anni fa, il 90% del capitale in Occidente era distribuito nelle mani del 10% della popolazione, alla fine del secolo quel 10% ne possedeva ancora, o solo, il 60%. Vuol dire che il ceto medio o medio-basso (circa il 90% della popolazione) ha conquistato una ricchezza che è corrisposta a circa il 40% del capitale, un tesoretto che oggi si sta erodendo a vista d’occhio ed è agli sgoccioli. Il periodo in cui le diseguaglianze si sono maggiormente ridotte è stato l’intervallo tra il 1945 e il 1980, quando forte è stata l’influenza di Keynes e l’iniziativa degli Stati nel coinvolgimento del capitale privato nei processi di ricostruzione dell’economia e creazione del lavoro.

Dagli anni Novanta e dal 2007 in poi la diseguaglianza è invece cresciuta a dismisura, in un clima assurdo, segnato ancora da un’egemonia socialdemocratica ma da una sostanziale assenza di critica del capitalismo che veniva anzi reinterpretato al meglio proprio da un élite progressista, tanto in Europa che negli Stati Uniti. La defezione delle sinistre ha assecondato in Europa processi neo-patrimoniali col conseguente sabotaggio delle politiche industriali e della spesa pubblica anticiclica.

Quella di Piketty non è una critica catastrofista. Anzi, da un lato dimostra che la critica al capitalismo ha svolto storicamente una funzione correttiva e progressiva e dall’altro che mai come oggi nel mondo vi è stata tanta ricchezza, distribuita male, ma mai tanta quanta ne è presente oggi. Se nel 1950 i patrimoni privati rappresentavano in Europa l’equivalente di due anni di PIL oggi essi rappresentano l’equivalente di ben sei. In questa situazione di elevata diseguaglianza e asimmetria tra ricchi e poveri il conflitto capitale-lavoro potrebbe passare in secondo piano rispetto a una relazione apparentemente armonica tra grandi patrimoni e povertà dilagante; una povertà produttrice (i working poors che pur avendo un lavoro popolano la soglia della povertà) che non ha rappresentanza politica o sindacale e che vive e si diffonde silenziosamente contaminando e plasmando la realtà. Una povertà clandestina che non ha un legame strutturato con l’attività delle organizzazioni tradizionali delle sinistre nazionali e che per questo finirà per sancirne la complessiva inattualità e inadeguatezza. Una povertà transnazionale che è l’altro volto della ricchezza transnazionale. Entità necessaria alla concentrazione di patrimoni in cui il capitale si riproduce e si specchia rovesciato.

Teoricamente la più efficace arma disponibile per ridurre il divario tra ricchi e poveri potrebbe essere una tassazione patrimoniale transnazionale, perché il mercato – entità weberianamente disincantata e moralmente autonoma – non conosce né etica, né limiti. Accanto a essa ogni sforzo delle politiche pubbliche dovrebbe puntare al contrasto della desertificazione industriale e alla creazione di lavoro, provando a misurare le possibilità di un ritorno della volontà politica delle principali forze socialdemocratiche al “momento keynesiano”. È chiaro che a questo scopo non è sufficiente il conflitto tra capitale e lavoro ma è necessaria invece una politica negoziale – anche di tipo verticale – ispirata a una critica al capitalismo patrimoniale e alle sue conseguenze nefaste. Sono necessarie nuove élites socialdemocratiche con consenso e potere. Non intendo dire che il conflitto tra capitale e lavoro stia scomparendo ma che potrebbe divenire residuale, tanto più nel contesto delle sovranità nazionali, condannando la sinistra tradizionale a una scomoda marginalità. Al conflitto, come si è detto, potrebbe subentrare una sindrome di paradossale armonia, in cui la polarizzazione sociale tra ricchi e poveri diviene gradualmente un’invariante strutturale (quasi un ente di natura) al cui interno l’unica mobilità sarebbe quella garantita dal successo e dall’azzardo misterioso della fortuna. Dall’altro lato speculare – dal lato della coscienza di classe dei nuovi poveri – un modello cognitivo ‘casuistico’ e ‘carismatico’ potrebbe insediarsi definitivamente al posto di un modello dialettico e processuale, con inevitabili ripercussioni sul piano dei valori e dei principi, trasformando complessivamente l’orizzonte della razionalità politica e morale e ampliando lo spazio potenziale di quegli uomini di successo capaci di mutare il corso delle cose, che Thomas Carlyle avrebbe chiamato ‘eroi’ storici. Tornando a Piketty La tassazione dei patrimoni resta per ora l’unico argine per scongiurare che la povertà liquida da un lato e la polarizzazione verticale della ricchezza dall’altro finiscano per divorare il vecchio mondo e costruirne uno radicalmente nuovo. Piketty ritiene che l’Europa (un quarto del PIL mondiale) dovrebbe cominciare da se stessa, avviando una tassazione di tutte le grandi fortune e i grandi patrimoni presenti nel suo campo. Eppure l’opera di Piketty, di cui pure si è molto discusso, in Europa non ha scosso ancora le coscienze. Diversamente in America ha scalato le classifiche divenendo uno dei libri più acquistati in assoluto. Tra i molti argomenti del successo editoriale Paul Krugmann ne individua uno non scontato. Nel senso comune degli statunitensi risulta difficile accettare il costituirsi di poteri patrimonali analoghi alle aristrocrazie premoderne. Non sembrerebbe dunque sedurre tanto il tema della povertà, che si ritiene anzi complementare a un modello di mobilità sociale basato sul successo individuale, ma piuttosto la critica delle responsabilità di una classe agiata senza meriti: un’inedita aristocrazia ereditiera. Un tema evidentemente rilevante oltreoceano, ma molto meno nella vecchia Europa, abituata all’aria viziata d’ancien regime. Il risultato è che l’assenza di un dibattito pubblico su questi temi rende ancora più pigra la volontà politica degli europei. Da noi, tradizionalmente legati allo stato sociale e a un’idea di controllo pubblico dell’economia, il tema cruciale è invece quello della povertà. In questo orizzonte una sinistra critica verso il capitale dovrebbe essere capace di cambiare le parole d’ordine e di ottenere il consenso largo dei nuovi poveri d’Europa. Non tutta la diseguaglianza si spiega con il calcolo della maggior convenienza della rendita da capitale. Accanto a esso ci sono i mutamenti demografici, l’invecchiamento, le interdipendenze globali che le forme della sovranità non rispecchiano più.

In questo senso una critica del capitalismo dovrebbe indurre anche a una revisione del tema della “grande recessione globale”. Anzitutto perché questa si è verificata in un orizzonte segnato dalla crescente diseguaglianza (di cui ci parla Piketty e da cui essa è stata aggravata) e in secondo luogo perché i suoi effetti distruttivi non hanno avuto riflessi globali uniformi. Mentre per i paesi ricchi dell’Occidente essa è stata una calamità, per i paesi emergenti essa è stata una bazzecola (in Cina, ad esempio, circoscritta a un crollo temporaneo delle esportazioni ripianato con l’abbondante riserva di valuta straniera).

Perché? Il mondo non ha un unico centro, né un’unica velocità. Prendiamo un altro libro celebre. The Great Divergence (2001) di Kenneth Pomeranz, esponente della world history. Pomeranz ha comparato le storie moderne di Cina ed Europa giungendo alla conclusione che la «grande divergenza» tra i due paesi (sino ad allora piuttosto allineati) sia subentrata solo alla fine del Settecento grazie al ruolo avuto dalla rivoluzione industriale inglese e, in particolare, grazie all’introduzione del carbone (e dunque all’aumento improvviso della capacità energetica) e al colonialismo, che ha consentito uno sfogo degli eccessi demografici conseguenti all’aumento dell’occupazione e della crescita economica, contestualmente alla possibilità di uno sfruttamento predatorio di miniere e manodopera a bassissimo costo. Dunque la diseguaglianza e lo squilibrio sono dipesi e potrebbero dipendere ancora anche dalle scoperte casuali, dall’innovazione scientifica, dalla crescita demografica, dalla politica e così via.

La teoria di Pomeranz è stata ampiamente dibattuta ed è diventata un riferimento classico, a tal punto da ispirare la teoria opposta della grande convergenza cui giunge, ad esempio, il premio nobel Michael Spence con il suo The Next Convergence: The Future of Economic Growth in a Multispeed World (2011). Il libro parla della crescita dei paesi in via di sviluppo. Questa crescita non è iniziata se non dopo la Seconda Guerra Mondiale e oggi giunge a un bivio, a partire dal quale è destinata a superare quella di Usa e Europa. Il mondo che abbiamo ereditato (i primati di Europa e Usa) è il frutto della grande divergenza iniziata alla fine del Settecento, un mondo in profonda trasformazione che finirà con la grande convergenza. Le antiche certezze politiche ed economiche figlie della grande divergenza e dell’epopea socialdemocratica (l’industrializzazione, la piena occupazione, lo stato sociale) volgono al tramonto. La sola economia della Cina, in cui vive il 37% della popolazione mondiale, nel 2030 potrebbe raggiungere una grandezza maggiore di quella di Europa e Usa assieme; mentre è certo che nel 2020 la Cina sarà la prima potenza economica mondiale con un PIL superiore di misura a quello degli Stati Uniti. Ovviamente la Cina come l’India non assicurano, almeno per ora, una redistribuzione pro capite della ricchezza lontanamente paragonabile a quella avuta progressivamente in Europa e negli Stati Uniti, ma la ‘convergenza’ abbinata a strategie demografiche di contenimento e alla costruzione di fondamenta per uno stato sociale (pensioni, sanità, istruzione) potrebbe correggere questo sviluppo riducendo, il potenziale di squilibrio globale e il divario interno, almeno in quei paesi, tra ricchi e poveri. Anche per questo, dall’angolo visuale della convergenza, la percezione della recessione globale varia notevolmente. Questo mutamento di prospettiva ha una portata eccedente la sola sfera della storia economica e contribuisce a costruire una concezione della storia oltre l’eurocentrismo.

In questo senso un titolo ora di facile accesso anche in italiano è Mondi connessi (2014) dell’ indiano Sanjay Subrahmanyam, pioniere della connected history. Vale a dire di una visione intercontinentale dei processi storici capace di accantonare l’arcaico contrasto tra Occidente e Oriente e di ricostruire una fitta trama di intrecci e interazioni multilivello prive di gerarchia. Un umanesimo pienamente transculturale. Lezioni di questo tipo dovrebbero rientrare di diritto nella biblioteca ideale della nuova sinistra. Spence manda in questa direzione un messaggio preciso: «due mondi distinti convergono. Il futuro della crescita è legato alla capacità delle prossime generazioni di comprendere il modo in cui evolverà la nostra reciproca dipendenza e di trovare modi creativi per gestirla e governarla». Non vi pare che le prossime generazioni, con in mano da una parte la percezione della diseguaglianza e dall’altra della grande convergenza, dovranno ripensare e ricreare la sinistra?

L’ultimo punto, l’ultimo interrogativo, riguarda il lavoro. Secondo le stime dell’Istituto Sindacale Europeo dal 2008 la recessione in Europa ha bruciato 10 milioni di posti di lavoro creando una massa di circa 13 milioni di nuovi poveri. Si tratta di una disoccupazione relativa, o tecnologica, come avrebbe detto Keynes, provocata da un processo simultaneo di distruzione di vecchio lavoro e di creazione di nuovo, secondo lo schema classico del costo sociale dell’innovazione. Il New York Times ha recentemente pubblicato uno studio grafico a cura di Jeremy Ashkenas e Alicia Parlapiano:

(http://www.nytimes.com/interactive/2014/06/05/upshot/how-the-recession-reshaped-the-economy-in-255-charts.html?_r=1) in cui un modello rizomatico mostra la metamorfosi del lavoro operata negli Stati Uniti dalla recessione a partire dal 2009. Al tracollo della manifattura, dell’edilizia, del tessile, dell’artigianato corrisponde la crescita massiccia di professioni abbinate alla ‘Digital revolution’. Particolarmente visibile, ad esempio, nell’asimmetria tra il comparto dell’editoria cartacea e il comparto dell’editoria digitale. Con una sfumatura dimensionale non trascurabile, che sancisce il trapasso dal mondo analogico al mondo digitale come dispersione di lavoro manuale e manifatturiero. Se infatti in cinque anni l’editoria tradizionale ha perduto 400.000 posti di lavoro, l’editoria digitale ne ha creati 76.000. Un divario qualitativo che ci descrive il rischio di un mondo iperdigitale, in cui la perdita di materia corrisponde all’impoverimento del lavoro manuale e della classe media.

Veniamo così all’ultimo libro di cui intendo dire qualcosa:Who Owns the Future di Jaron Lanier (2013). Jaron Lanier è considerato un pensatore di grande influenza, i suoi libri vendono molto, le sue idee sono originali, bizzarre, frutto di un insider etico che conosce le logiche più intime dell’economia digitale e che vuole socializzarle per cambiare internet e renderlo più umano e dignitoso. La rivoluzione digitale per Lanier ha distrutto più posti di lavoro di quanti ne ha creato. Un esempio folgorante è quello della Kodak. Quando ha chiuso battenti nel 2012 (fu fondata nel 1881 a New York) valeva 28 miliardi di dollari e impiegava 150.000 persone. Intanto il nuovo protagonista della fotografia digitale è diventato Instagram, venduto a Facebook per 1 miliardo di dollari. Instagram si regge sul lavoro di soli 13 dipendenti. Un numero apparente. In realtà la grande massa dei lavoratori veri e non pagati sono i milioni di utenti che contribuiscono al network gratuitamente, consentendo così che tutta la ricchezza finisca nelle mani di un gruppo ristretto di persone. L’internauta che lascia quotidianamente sue tracce è lieto di scoprire che nell’oceano della rete tutto è gratis, open, free. Ma intanto l’economia digitale dell’informazione concentra la ricchezza e il potere nelle mani di pochi monopolisti. Colossi digitali che controllano i server centrali e traggono immensi profitti dai dati che ricavano gratuitamente osservando le nostre vite. Dalle nostre vite connesse affiorano continuamente idee, tendenze, opinioni, gusti costruendo il più grande e gratuito sismografo dell’anima umana, amministrato e manipolato da una cerchia ristretta di programmatori. Questo fantasma di libertà imprigiona il mondo digitale in una stagnazione economica perenne, con ricorrenti crisi finanziarie e diseguaglianze sempre più gravi. Quando prenderanno piede stampanti 3D, infermieri robotici e veicoli autoguidati la disoccupazione dilagherà anche nell’industria, nella sanità e nei trasporti conclude Lanier. Anche nel caso di Who Owns the Future l’orizzonte sociale e politico dell’avvenire si annuncia oligarchico, piramidale, disumanizzante. Una realtà divorata dall’ “accumulazione di capitale”, dall’”amore per il denaro” e dalla concentrazione di ricchezza. Un mondo lontanissimo dall’utopia keynesiana della “beatitudine economica”, in cui la liberazione dal lavoro e dalla necessità avrebbe emancipato l’uomo dalla tirannide dell’utilitarismo, dalla lotta per la sopravvivenza. L’analisi di Lanier è spietata e veritiera e ci racconta un’economia in cui il controllo delle passioni e delle idee è funzionale alla capacità di accumulazione di potere e ricchezza da parte dei monopoli. Un controllo subdolo che si veste da fantasma di libertà e che determina e organizza i consumi, le opinioni, gli orientamenti ideologici e i regimi politici. Un sistema di valori e di gerarchie che attende la sua demistificazione. Ancora una volta, come ai tempi di Keynes, il pessimismo non può essere la via di fuga. Le idee e le passioni sono tornate al centro del mondo. Ecco due tre cose che ho imparato sul capitalismo, ad uso di tutti, tragga il lettore le sue conclusioni.

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