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Chi è Ahed Tamimi, la sedicenne simbolo delle proteste palestinesi

Ahed Tamimi, simbolo della resistenza palestinese, resta in carcere. La sua detenzione è stata ulteriormente prolungata. Per la quarta volta. Il processo comincerà il 31 gennaio. Lo hanno deciso i giudici militari israeliani che non hanno concesso la libertà su cauzione alla sedicenne palestinese arrestata per aver schiaffeggiato due soldati dell’IDF il mese scorso nel villaggio di Nabi Saleh, nella West Bank.

Sul Guardian, un suo ritratto firmato da Harriet Sherwood, pubblicato con il titolo “Palestinian 16-year-old Ahed Tamimi is the latest child victim of Israel’s occupation” (2 gennaio 2018). Ve lo riproponiamo tradotto per L’Argine.

Poco più di quattro anni fa, guidai fino al villaggio di Nabi Saleh, nella West Bank, per passare una giornata con una ragazzina dodicenne. Si chiamava Ahed Tamimi e la intervistai per un articolo: “I bambini dell’occupazione: crescere in Palestina”.

Parlammo della sua vita nel villaggio, la presenza costante dei soldati, l’ordine di demolizione sulla sua casa, di sirene, del calcio e del gioco della campana. Era un folletto, un difficile miscuglio di donna di mondo e ingenuità. Dei tanti bambini che ho conosciuto nella West Bank e a Gaza nei quasi quattro anni in cui ho coperto il conflitto israelo-palestinese per il Guardian, ho trovato Ahed una delle più disturbanti.

Allora, era già molto conosciuta nelle cerchie pro-palestinesi. Nel 2012, un video che la mostrava affrontare rabbiosamente un soldato israeliano era diventato virale; Ahed venne celebrata. Adesso, un altro video di lei che schiaffeggia e tira un calcio a un soldato israeliano le ha comportato un’accusa di assalto alle forze dell’ordine, istigazione e lancio di pietre. L’adolescente è in custodia e attende il processo.

Il video e i capi d’imputazione hanno polarizzato l’opinione pubblica. Per molti attivisti filo-palestinesi, Ahed è un simbolo della resistenza, un’eroina bambina, una combattente per la libertà. È stata paragonata a Malala Yousafzai e Giovanna D’Arco. È stata adulata sui social media ed elogiata pubblicamente dal presidente palestinese, Mahmoud Abbas. Dal lato israeliano, alcuni hanno detto che è la marionetta di genitori politicizzati, che è stata istruita alla violenza e che si merita una dura punizione.

Come al solito, le cose sono un po’ più complicate. Ahed fa parte della seconda generazione di palestinesi che sono cresciuti sotto l’occupazione. Suo padre, Bassem, è nato nel 1967 – l’anno in cui Israele ha preso possesso della West Bank, Gerusalemme est, Gaza e le alture del Golan nella Guerra dei sei giorni. Lui e i suoi figli hanno solo conosciuto una vita di posti di blocco, documenti d’identità, detenzioni, demolizione di case, intimidazioni, umiliazioni e violenze. Questa è la loro normalità.

La loro casa si trova nell’Area C, il 62% della West Bank che è sotto il controllo militare di Israele. Il loro villaggio, Nabi Saleh, è stato teatro di frequenti proteste da quando i coloni israeliani si sono appropriati della fonte locale decenni fa. Bassem e sua moglie, Narman, e altri membri della famiglia hanno spesso lottato in prima linea.

Sono state lanciate pietre dai manifestanti; le forze israeliane hanno risposto con gas lacrimogeno, proiettili di gomma, idranti e, a volte, munizioni vere. Almeno due abitanti del villaggio, incluso lo zio di Ahed, Rushdie, sono stati uccisi, centinaia feriti e almeno 140 persone detenute o imprigionate – fra le quali Bassem e Nariman, più volte.

Ahed è cresciuta in questo ambiente. Quando le ho chiesto quante volte ha avuto a che fare con il gas lacrimogeno, si è messa a ridere, dicendo che non se le ricorda più. Ha descritto raid militari in casa della sua famiglia. Ho osservato Ahed e i suoi fratelli mentre, più e più volte, guardavano filmati dei loro genitori che venivano arrestati e del loro zio che si contorceva a terra dopo che gli avevano sparato.

Molte delle risposte alle mie domande sembravano preparate. “Vogliamo liberare la Palestina. Vogliamo vivere come persone libere. I soldati sono qui per proteggere i coloni e impedirci di raggiungere la nostra terra”, mi disse. I suoi genitori sembravano orgogliosi del nome che si era fatta fra i militanti anti-occupazione, un’impressione rinforzata questa settimana quando Bassem ha descritto sua figlia come “una rappresentante di una nuova generazione del nostro popolo, di giovani combattenti per la libertà. […] È una delle tante giovani donne che negli anni a venire guideranno la resistenza al dominio israeliano”.

L’impressione che la recente interazione di Ahed con i soldati fosse in parte fatta per essere filmata, che sua madre apparentemente non si sia fatta scrupoli nel trasmetterla in diretta sui social media e che (secondo quanto afferma l’accusa israeliana) l’adolescente avrebbe dichiarato che “o con un attacco con un pugnale, con un attentato sucida o lanciando pietre, tutti devono fare qualcosa e unirsi affinché il nostro messaggio raggiunga coloro che vogliono liberare la Palestina”, tutto questo rinforza l’idea che i Tamimi siano una famiglia altamente politicizzata.

Quattro anni fa, accanto all’attivista alle prime armi che insisteva nel dirmi che non aveva paura dei soldati armati davanti ai quali passava ogni giorno, c’era una ragazzina ansiosa di essere fotografata accanto a una torre di guardia militare, e che – secondo i suoi genitori – a volte urlava nel sonno o si svegliava singhiozzando.

Le esperienze di Ahed si ritrovano nelle vite di centinaia di migliaia di bambini nella West Bank e a Gaza. Un contesto così brutale per l’infanzia può plasmare i comportamenti per una vita intera. Frank Roni, che è stato specialista Unicef per la tutela dei minori nei territori palestinesi, affermò che aveva potuto osservare un “trauma intergenerazionale” per coloro che sono cresciuti sotto l’occupazione. “Il conflitto in corso, il deterioramento dell’economia e del contesto sociale, l’aumento della violenza – tutte queste cose hanno un forte impatto sui bambini. I bambini sviluppano così una mentalità da ghetto e perdono ogni speranza nel futuro, cosa che alimenta un ciclo di disperazione”, disse nel 2013.

A 12 anni, Ahed mi disse che voleva diventare un’avvocatessa da grande, così da lottare per i diritti dei palestinesi. A 16 anni potrebbe essere destinata a una lunga condanna in carcere. In qualunque modo si concluderà il procedimento giudiziario israeliano, sembra chiaro che Ahed passerà i prossimi mesi della sua vita in prigione, piuttosto che a studiare per gli esami.

La sua storia non è quella di una sola bambina, ma di un’intera generazione – due generazioni – senza speranza e sicurezze. E, cosa tragica e imperdonabile, la stessa cupa prospettiva potrebbe toccare anche a una terza generazione.

Foto: Ahed Tamimi (Reuters / Ammar Awad)

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