Luigi_Pizzolo12

Chiamiamolo con il suo nome

Quando in una competizione elettorale consegui un risultato deludente, una vera e propria sconfitta, fosse questa la risultante del raffronto con competizioni precedenti o, in mancanza di un simile riferimento, con le aspettative che i sondagggi o le personali percezioni ti consegnano, la cosa peggiore è sicuramente commentare e cercare spiegazioni a caldo. Proprio per evitare questo rischio cercherò di riflettere sulle ragioni oggettive che nessuno stato d’animo può inquinare.

La prima di queste, non solo oggettiva ma quasi banale, è che le responsabilità di una sconfitta non sono attribuibili al “popolo bue” che non è stato in grado di cogliere la bontà delle tue proposte, ma proprio a chi la sconfitta l’ha subita e cioè, nel nostro caso, la sinistra nel suo complesso.
In secondo luogo non vi è mai “la” ragione e nemmeno una ragione principale contingente, quanto piuttosto una serie di errori e limiti, molti dei quali hanno a che fare con la storia della sinistra negli ultimi vent’anni o forse più.

Volendo partire dagli avvenimenti più recenti, l’offerta politica della sinistra si divideva tra chi rivendicava presunti buoni risultati in campo economico e sociale e chi, al contrario, reclamava assoluta discontinuità.
Nel primo caso c’era l’arrogante, ma oggettivamente obbligata, scelta di non considerare quanto l’azione dei governi precedenti fosse stata già in più occasioni bocciata dagli elettori. Dalle europee del 2014 sino al referundum costituzionale, è stato un susseguirsi di cocenti e dolorose sconfitte. Era venuto progressivamente meno il consenso di quelle classi sociali e categorie economiche che storicamente la sinistra ha rappresentato, e che riponevano nella sinistra la speranza di veder tutelati i propri interessi e le proprie istanze. Su questo non si è mai aperta una discussione seria e approfondita e le poche ed isolate voci che dall’interno del PD si levavano in tal senso (Cuperlo) venivano nel migliore dei casi ignorate se non, a volte, umiliate (vedi l’atteggiamento di Renzi che abbandona la Conferenza nazionale di Napoli dopo il suo intervento e prima che lo stesso Cuperlo intervenisse).

Del resto Renzi ha più volte ripetuto e ribadito che la sua legittimazione derivava dal vastissimo consenso che aveva ottenuto alle primarie del 2017 e che i suoi unici interlocutori erano i cittadini, militanti e simpatizzanti, che in quell’occasione lo avevano votato. E tra quei militanti e simpatizzanti ve ne erano molotissimi genuinamente di sinistra, che avevano scelto Renzi perchè lo ritenevano l’unico leader spendibile a livello nazionale ed europeo. A ragione, ritengo. Perchè indubbiamente lo spessore politico del ragazzo era, ed è, certamente superiore a quello di Orlando e Emiliano. Ma proprio qui sta una delle concause della crisi del PD: essere diventato, di fatto, un partito leaderistico, sostanzialmente peronista, ma di cui si pensava che l’oggettivo declino, che i fatti e le cifre evidenziavano, potesse essere arrestato dalle sue presunte capacità. Così non è stato, così non poteva essere. E in ciò sta una delle ragioni che viene da lontano e che spiega i risultati di ieri: il problema di come si seleziona e si forma una classe dirigente all’altezza. E’ un problema, appunto, che viene da lontano e di cui Renzi è l’effetto, non la causa.

Ma se Atene piange, Sparta non ride. Pur con tutte le attenuanti del caso (l’essere nati da pochissimo, scarsa o, in alcune aree del Paese, assente presenza sul territorio, poca attenzione dei media, ecc.) il risultato di Liberi ed Uguali è assai deludente. Facile individuare alcune cause contingenti. Innanzitutto la composizione delle liste che ha dato da un lato l’idea di un “ceto parlamentare” preoccupato innanzitutto di preservare se stesso; dall’altro il ricorso alla c.d. “società civile” che funziona se collegata al territorio e di questo ne è genuina espressione, non in virtù del proprio curriculum. Sono persone e personalità senza dubbio preziose e che occorre valorizzare in un’ottica di governo, caso mai. Ma oggi, la nostra presenza al governo del Paese, non era propriamente all’ordine del giorno. Anche la scelta della leadership, e devo dare ragione per l’ennesima volta a Peppino Caldarola che il rischio l’aveva denunciato in tempi non sospetti, non credo sia stata azzeccatissima. Pietro Grasso è uomo integerrimo, un uomo di cui l’intera nazione dovrebbe essere orgogliosa per la limpidezza e l’abnegazione con cui ha servito le istituzioni, prima da magistrato e poi da Presidente del Senato. Ha condotto un campagna elettorale con immensa e commovente generosità, ma non è un politico e attribuisco a questo sostantivo un valore positivo. Gli è spesso mancata la capacità di esaltare e porre in primo piano le proprie ragioni, le nostre ragioni. La capacità di rendere chiaro che quello di LeU non era semplicemente un programma elettorale, ma un’idea di società, di Paese. Insomma, non è stato capace (non siamo stati capaci) di portare nessuno fuori dal bosco. Ovviamente non attribuisco a Grasso alcuna responsabilità. L’attribuisco, piutttosto, a quanti tra noi erano ossessionati dalla ricerca del “papa straniero“, del “nostro Belotti“.

Ma queste sono solo alcune e parziali ragioni che spiegano i risultati elettorali del centrosinistra. Ma questi risultati giustificano il coro pressoché unanime dei commentatori secondo i quali hanno sancito inequivocabilemte e definitivamente la sconfitta della sinistra per come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi? Dipende.
Gli ultimi vent’anni hanno caratterizzato la sinistra per la scarsa tempestività nel comprendere le nuove sfide e i nuovi bisogni sociali, incapacità nel tenere insieme le esigenze e le aspettative delle nuove generazioni con quelle delle generazioni precedenti, confusione culturale, spesso subalternità culturale, crisi e, soprattutto, mancanza di identità.
Secondo molti, anche a sinistra, la contrapposizione politica rilevante oggi non è più quella tradizionale destra‐sinistra, bensì tra modernità e conservazione, apertura e ripiegamento, favorevoli o contrari alla globalizzazione, ecc. Insomma il concetto stesso di sinistra viene esorcizzato. Se continueremo su questo crinale politico, in effetti sì, la sinistra è definitivamente sconfitta.

Eppure non è possibile fare a meno della sinistra; la sinistra infatti “esiste in natura”. Dovrà fare i conti con se stessa, rifondarsi. Dare nuova e originale consistenza ai valori del socialismo, del cattolicesimo democratico, dell’ambientalismo. Riconsiderare sulla base di quelli gli effetti perversi e drammatici della globalizzazione guidata dai mercati e dalla finanza e non dalla politica. Non vi saranno muri che tengono se non si affronta questo tema coniugandolo ma non confondendolo con il pur irrinunciabile valore della solidarietà. Valutare quali effetti avrà sulla vita reale delle persone l’industria 4.0, la tecnologizzazione dei processi produttivi. Quale welfare universale per il futuro delle giovani generazioni. Le politiche “trumpiste” del centrodestra e dei cinque stelle sono destinate ad un inevitabile fallimento. Con conseguenze, speriamo, il meno catastrofiche possibili sul tessuto sociale ed economico del Paese. Occorrerà farsi trovare pronti.

Noi cominceremo da domani, con un percorso che ci porti a costruire un partito nuovo e di chiara identità, con un chiaro nome: il Partito del Lavoro. Dovrà essere il laboratorio di una sinistra nuova, rappresentativa, originale. L’alternativa è rifugiarsi, anche noi, nel bosco. Non ne ho ancora voglia.

Nella foto: Luigi Pizzolo ad una manifestazione elettorale di Liberi e Uguali a Manfredonia

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