Credo che l’analisi più efficace dell’attuale stato dei rapporti a sinistra l’abbia fatta Paolo Mieli nel suo editoriale di oggi 20 novembre sul Corriere della Sera. “Vedere Renzi a braccetto con Bersani e D’Alema darebbe la stessa sensazione – scrive Mieli – della «foto di Harare», quella in cui, nella capitale dello Zimbabwe, il novantatreenne presidente Robert Mugabe è apparso venerdì scorso rilassato in poltrona assieme al generale Costantino Chiwenga che lo aveva deposto il giorno precedente”.
In effetti il tentativo di Piero Fassino, descritto dalla stampa come “tenace tessitore”, ha in realtà due evidenti obiettivi. Innanzitutto convincere Pisapia, BonelliBonino ad accettare di unirsi in un’alleanza elettorale con il PD. Compito, questo, che in verità non sembra particolarmente improbo. In secondo luogo, vista l’oggettiva distanza non di natura personale ma programmatica con MDP e le altre componenti della sinistra prossime ad una (speriamo) riuscita unione di fatto che (speriamo) dovrebbe poi trasformarsi in un altrettanto riuscito matrimonio, il tentativo di imputare a queste ultime il fallimento di un ipotetico accordo che avrebbe preservato il Paese dalle invasioni barbariche. Ora come allora, sarebbe stato utile studiare le cause, i gravissimi errori di Roma che determinarono il decadimento dell’Impero d’ Occidente e la vittoria delle orde provenienti da Oltralpe. Ma tant’è, misurarsi in tatticismi deve essere meno faticoso e complicato dello studio e degli insegnamenti della storia, più o meno recente.
Comunque, mentre Piero “Penelope” Fassino tesseva la sua tela, che un’attenta regia si preoccupava di disfare, ieri a Roma si celebrava l’Assemblea nazionale di MDP che ha approvato la bozza programmatica del movimento e aperto ufficialmente il percorso che si concluderà il prossimo 3 dicembre con Sinistra Italiana e Possibile.

Se davvero si vogliono cogliere le ragioni dell’attuale distanza dal PD, è proprio da lì che bisogna partire, dal programma.
L’ambizioso obiettivo che la sinistra si pone è addirittura “cambiare la vita delle persone”. Si tenga conto che la stesura del documento è stata affidata a Guglielmo Epifani, uomo allergico a qualsiasi forma di vuota retorica e che, in virtù del suo passato da sindacalista, è portato all’individuazione di strategie e obiettivi concreti. L’aver scelto di utilizzare quella impegnativa affermazione significa che la proposta politica con cui ci intendiamo partecipare alle prossime elezioni contiene in se elementi che potrebbero davvero incidere in meglio nella vita di milioni di persone.

Il primo passo in questa direzione è l’adozione di misure economico – sociali che abbiano come fine quello di debellare l’ingiustizia sociale. E la più grande ingiustizia – è scritto nel documento – è debellare la condizione di infelicità nella quale sono costretti a vivere milioni di nostri giovani.
Cambiare la vita delle persone”, garantire il diritto alla “felicità”: da quanto la sinistra ha escluso dal proprio orizzonte concetti e proposte che generano emozioni, che inducono ad appassionarsi e a rinnovare l’impegno politico? Non è affatto la “via romantica, astratta e velleitaria al Socialismo”, sono concetti, auspici, emozioni che camminano su gambe assolutamente solide. Gambe, per dire, a cui non sfugge il peso del debito pubblico e che sanno che le compatibilità finanziarie rendono la coperta corta, ma hanno deciso di iniziare a coprire i piedi, dove il freddo si avverte prima. Iniziare, quindi, dai meno garantiti.
Il diritto alla felicità, del resto, non è un concetto politicamente nuovo. Nella Dichiarazione di Indipendenza americana del 4 luglio 1776, i costituenti avevano stabilito che a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità.

In realtà, i presupposti culturali, politici ed economici sui quali quella grande Nazione è nata, è cresciuta e si è affermata erano la negazione stessa di quel diritto. Il “sogno americano” è stato sempre un’occasione per pochi, l’inferno quotidiano delle disuguaglianze, la condizione dei più. E, in questa ottica, non è forse un caso che negli Stati Uniti si affermino con successo uomini politici che fanno della critica feroce al quel sistema il loro humus programmatico. Prima Bernie Sanders, poi Bill de Blasio e oggi Lee Carter, propongano un programma dichiaratamente socialista che riconosca a tutti i diritti universali (cure sanitarie, istruzione, lotta alla povertà e all’emarginazione). E’ la messa in discussione di quel sistema che raggiunse il suo apice negli anni ’80 con Ronald Reagan negli USA e Margareth Thatcher in Europa. All’epoca la sinistra europea reagì sposando la “terza via” di Tony Blair che, al di là dei presunti meriti e limiti, agiva in un contesto completamente diverso dall’attuale, quasi speculare. All’epoca la destra mondiale gestì e favorì la prima ondata di globalizzazione con spregiudicate politiche di deregulation, di libero commercio, di abbattimento economico delle frontiere e dei flussi umani e finanziari. Permise di indirizzare verso pochi enormi ricchezze, depotenziando la speranza che la globalizzazione stessa potesse redistribuirle equamente. Oggi, come si diceva, lo scenario è opposto e, paradossalmente ma non poi tanto, è la stessa destra che gestisce e trae consensi da quegli effetti distorti che proprio essa ha generato. Costruisce muri di ogni specie, attua misure protezionistiche, alimenta la paura.

Difronte a tale scenario la sinistra europea e mondiale mostra i propri limiti, il non essere riuscita al elaborare una seria ed efficace proposta nettamente alternativa che non può ridursi al solo tentativo di arginare quell’ondata, ma di indicare una prospettiva nuova, diversa. Ecco quindi il nodo reale, è qui che si misura la distanza tra noi e il PD: tra chi propone un orizzonte che deve essere necessariamente in discontinuità con il recente passato e che rinnovi i valori del socialismo, del solidarismo cattolico, dell’ambientalismo e chi ritiene che la terza via blairiana, di coniugare liberismo e socialismo, sia ancora valida. Queste politiche hanno costretto milioni di nostri concittadini a rifugiarsi nella foresta di Sherwood perché non hanno più alcuna fiducia nello sceriffo di Nottingham. La nostra scommessa è quella di non offrirgli il Robin Hood di turno, ma di farli sentire parte di una comunità che, come diceva Giorgio Gaber, è felice solo se lo sono gli altri.

Noi siamo noi. E siamo questi. Basta accuse e veleni reciproci. Ci rivedremo il giorno dopo le elezioni. Speriamo e auguriamo al PD un buon risultato che sommato al nostro possa permetterci di incontrarci per discutere seriamente quale futuro e quali prospettive dare a chi, oggi, è infelice.

Foto di copertina: L’assembela nazionale di Articolo Uno-MDP di Roma

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