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Crisi Venezuela 1: appunti sul Chavismo

Questo articolo fa parte di una serie in tre parti che, proponendo pezzi della stampa estera e italiana, analizza l’attuale crisi venezuelana. Per farlo, è però necessario partire da una riflessione su limiti e meriti del Chavismo. Proponiamo, oggi, la sintesi di un articolo di Daniel Finn, “Unfinished Business”, pubblicato il 22 maggio 2017 su Jacobin Magazine.

L’esperimento lanciato da Hugo Chávez dopo la sua elezione a presidente del Venezuela nel 1999 non attrasse subito l’attenzione della sinistra internazionale. A farlo, fu il golpe, fallito, del 2002 e la vittoria – con ampia maggioranza – nel referendum popolare sulla sua destituzione del 2004 (voluto dall’opposizione, che utilizzò alcune norme della Costituzione Bolivariana del 1999 voluta proprio dal Presidente Chávez). Quando Chávez fu rieletto nel 2006, ormai era chiaro che stava accadendo qualcosa di interessante, con effetti sul resto della regione, se non del mondo. In America Latina, infatti, era iniziata quella che è stata definita la “marea rosa”, che va dall’elezione di Lula a presidente del Brasile nel 2003 al ciclo di proteste in Bolivia che portarono Evo Morales e il suo Movimento per il Socialismo al potere.

Il governo Chavista, durante i suoi primi anni al potere, realizzò importanti riforme economiche, sociali e democratiche. Ridusse drasticamente la povertà nel paese e si occupò dell’accesso all’istruzione e al servizio sanitario. La spesa sociale passò dall’8,2% del PIL del 1998 al 13,6% del 2006. La povertà scese dal 55% del 2003 al 30% del 2006. Quando Chávez andò al governo per la prima volta, c’erano appena 1.600 medici di base per una popolazione di 23,4 milioni. All’inizio del suo secondo mandato, i medici di base erano diventati 20.000 per una popolazione di 27 milioni. Inoltre, più di un milione di persone si erano iscritte ai programmi di alfabetizzazione per gli adulti.

Importanti trasformazioni coinvolsero anche il sistema politico venezuelano, rendendolo più aperto e democratico. Chávez aveva ereditato una cultura politica segnata dalla violenza, dalla corruzione e dall’ampia distanza dei cittadini dai governanti.

La nuova Costituzione Bolivariana diede ai cittadini più potere per mettere i propri governanti di fonte alle proprie responsabilità, dando loro il potere di indire referendum per chiederne la destituzione. Cosa che l’opposizione del paese poi fece nel 2004.

Alla fine del 2004, inoltre, venne lanciata l’Alleanza bolivariana per le Americhe (ALBA), un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica tra i paesi dell’America Latina e i paesi caraibici, promossa dal Venezuela e da Cuba, in alternativa (da cui il nome) all’Area di libero commercio delle Americhe (ALCA) voluta dagli Stati Uniti.

A tutto questo si arrivò nonostante i continui tentativi dell’opposizione di destra di rovesciare il governo democraticamente eletto e rimpiazzarlo con una dittatura alla Pinochet.

Allo stesso tempo, però, va sottolineato che il Chavismo non era esempio di perfezione sul piano dei diritti democratici. Le critiche da muovere non mancano: le prigioni venezuelane, che versavano in condizioni terribili, non furono riformate e le forze di polizia avevano una relazione difficile con gli abitanti dei barrios urbani. Tuttavia, secondo gli standard di altri paesi delle Americhe, il Venezuela poteva comunque essere considerato uno stato democratico.

La sinistra venezuelana non aveva alcun dubbio che il governo Chávez avesse bisogno di supporto nelle sue battaglie contro l’opposizione di destra e l’imperialismo statunitense. Allo stesso modo, era anche certa che l’esperimento Chavista contenesse seri difetti – l’estrema dipendenza dalla leadership di Chávez, l’estremo verticismo del movimento Chavista, la corruzione ampiamente diffusa fra i funzionari statali – a cui bisognava porre rimedio se si voleva che questo sopravvivesse nel lungo periodo.

Molto del fascino della situazione venezuelana derivava dalla figura di Chávez. Salito al potere presentandosi addirittura come un leader della Terza Via, dopo la dura opposizione della destra e delle élite del paese Chávez radicalizzò il suo programma. Come scrive Mick McCaughan nel suo studio sul primo Chavismo, The Battle of Venezuela, il momento cruciale si presentò nel 2001, quando Chávez propose un pacchetto di quarantanove riforme. Nonostante fossero molto blande, le riforme segnarono il momento in cui “imprese, media, il settore petrolifero, la chiesa e altri settori influenti gettarono la loro sfida chiedendo che il governo mediasse o che, in alternativa, si preparasse a una resistenza totale al proprio operato”.

La svolta socialista giunge solo alcuni anni dopo il golpe orchestrato dalle destre del 2002, durato 48 ore e poi fallito, e dei cambiamenti che stavano interessando l’intero continente sudamericano. Chávez, dopo quell’episodio, si convinse che era necessaria una svolta radicale, quasi rivoluzionaria, per difendere il Paese.

Durante la campagna elettorale per la rielezione nel 2006 Chávez dichiarò che il socialismo era l’obiettivo della sua amministrazione – “il socialismo del Ventunesimo secolo”, definito così in opposizione ai tentativi falliti del secolo scorso. Ma non era totalmente chiaro in cosa questo socialismo dovesse consistere. Più e più volte Chávez si è scagliò contro il sistema capitalista e sottolineò la necessità di una rottura radicale.

Nonostante questo nuovo indirizzo, l’economia venezuelana rimase, e lo è ancora oggi, principalmente nelle mani dei privati. Il settore statale si era espanso e c’erano esperienze promettenti di autogestione dei lavoratori, ma la vecchia classe dominante aveva mantenuto buona parte della propria ricchezza e una nuova élite – i cosiddetti “Boliborghesi” – avevano iniziato a consolidare la propria posizione.

Oggi, ad alcuni anni dalla sua morte, possiamo affermare che Chávez ha lasciato tre problemi chiave da affrontare.

La questione della leadership. Sarebbe stato difficile trovare un sostituto per Chávez, ma il modo in cui Chávez gestì la questione, nominando Nicolàs Maduro come suo successore alla guida del movimento, semplicemente ha rafforzato gli aspetti verticistici del Chavismo.

Il piano economico. Chávez ha reso il Venezuela più dipendente che mai dalle esportazioni di petrolio. Nei primi anni di governo si discusse della diversificazione dell’economia e della costruzione di una forte base manifatturiera, ma quei piani messi lasciati da parte poiché il prezzo del petrolio continuava a salire e si pensava che, anche qualora fosse sceso, non sarebbe poi sceso così tanto.

Il sistema di tasso di cambio e controllo dei prezzi. Questo sistema, ereditato da Maduro, era originariamente pensato per contrastare il sabotaggio economico da parte dell’opposizione all’inizio degli anni duemila, ma era diventato da tempo profondamente inefficace. Nonostante questo, il governo venezuelano non è mai intervenuto per cambiarlo.

L’attuale crisi del Venezuela è il simbolo delle ambiguità del socialismo del Ventunesimo secolo, che si è trovato bloccato in una terra di nessuno. Imponendo i controlli dei prezzi e al contempo lasciando la produzione e la distribuzione dei beni ampiamente in mano privata, il governo Bolivariano è andato troppo in là per il capitalismo ma non abbastanza in là per il socialismo. Il crollo del prezzo del petrolio avrebbe causato gravi problemi in Venezuela in qualsiasi circostanza, ma il fallimento delle riforme del sistema dei controlli è un errore grave che potrebbe risultare fatale per l’intero processo.

È difficile immaginare come l’attuale crisi possa essere risolta, preservando le conquiste del Chavismo: in particolare i programmi sociali che hanno trasformato le vite delle classi popolari e il profondo senso di potere che ha coinvolto i settori tradizionalmente esclusi della società.

(fine parte 1 – segue)

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