The Future1

Da dovere ripartire: lotta alle disuguaglianze, agli individualismi e ridare valore alla militanza.

Sebbene ancora manchi, all’interno del Partito Democratico, una linea e una posizione chiara sulla sconfitta referendaria del 4 Dicembre, a causa di una Direzione nazionale più volte “silenziata”,  è chiaro, però, che la vittoria del NO ha aperto una nuova fase politica all’interno del Partito. I personaggi, i leaders e i capicorrente sono sempre gli stessi; le accuse che le diverse anime del Partito si muovono tra di loro sono sempre le stesse; l’arroganza di certe posizioni e il rancore di altre sono sempre le stesse.

Davanti a questo immobilismo, tra una direzione e l’assemblea nazionale del 18 Dicembre, nella quale Renzi chiederà (ed otterrà) l’indizione del Congresso per la scelta del Segretario nazionale del PD, c’è però qualcosa che si muove sullo sfondo.
Non parlo di Pisapia, le avventure dei sindaci del centrosinistra che si candidavano a livello nazionale già le abbiamo viste in tutte le loro distorsioni e controversie nella metà degli anni ’90; non parlo nemmeno dei vari Speranza ed Emiliano (ancora scottato dalle posizioni di Renzi sul referendum sulle trivelle); quello di cui vi parlo è una sorta di “movimento”.

Un movimento che parte dal basso, dai circoli, dalle sezioni, dai gruppi di amici; un movimento che sta nascendo con l’idea di spostare l’asse politico del Partito Democratico a sinistra senza odio o rancore verso nessuno, ma anzi con l’idea che solo spostando il Partito Democratico a sinistra e combattendo le disuguaglianze sociali si possa fermare tutta quell’onda di odio e apatia che da qualche anno caratterizza la nostra società. Un movimento che ha come idea l’avvento di una vera e propria rivoluzione del modo con cui fare politica. Un movimento che guardi al Partito come un collettivo unico, e non come un insieme di partitini capeggiati da minicapocorrenti.
E’ in questo senso che si sta muovendo la proposta politica di Enrico Rossi, candidato alla segreteria nazionale del Partito Democratico in tempi non sospetti. Una candidatura che piace perché invece di parlare di nomi, parla di idee e proposte per rilanciare il PD spostandolo a sinistra.

Anche se la Direzione nazionale e i dirigenti nazionali del Partito, in larga maggioranza, continuano a mettere la testa sotto la sabbia quando sentono pronunciare le parole “analisi del voto”; anche se il nuovo Governo, nei nomi e negli incarichi, sembra essere l’immagine riflessa di quello precedente, ci vuole poco per capire che il NO non è stato un voto contro la Riforma.
Per carità, sicuramente qualche italiano sarà andato a votare il 4 Dicembre cosciente di quello che andava a votare, consapevole del sistema attuale e di quello che avremmo avuto con la Riforma Boschi, ma la maggioranza è andata a votare per esprimere il loro forte dissenso contro una politica lontana dai problemi quotidiani; una politica che molto spesso sembra vivere in un paese diverso rispetto a quello in cui viviamo tutti noi.

Basta guardare le analisi dei flussi di voti (ne parlo in questo articolo per L’Argine) per capire che povertà, disuguaglianze, poche opportunità e inconsistenza della proposta politica stanno alla base del risultato del 4 Dicembre. E o ci facciamo tutti un bel bagno di umiltà, capendo cosa e dove abbiamo sbagliato come Partito, oppure la strada alla deriva nazional-populista/euroscettica è aperta.

L’unico argine che, oggi, può esistere è un Partito Democratico spostato a sinistra; identitario; rappresentativo di corpi intermedi altrettanto strutturati nella società italiana e impegnato costantemente nella risoluzione effettiva dei problemi sociali ed economici che attanagliano il Paese. Ma per essere all’altezza delle sfide che lo aspettano dobbiamo cambiare il modo con cui abbiamo fatto politica fino ad adesso dentro al Partito. Tranquilli nessuna idea di partito liquido. Dobbiamo ripensare, però, non solo il valore della militanza politica: a me piacerebbe che i militanti, ovvero coloro che spendono parte del loro tempo per il Partito, abbiano poi un potere decisionale rilevante. Per esempio potremo evitare , a questo giro, di fare primarie aperte per la scelta del Segretario del Partito Democratico; potremo pensare a strumenti digitali che permettano di fare consultazioni online per decidere la linea ufficiale del Partito su temi sociali ed etici importanti come la legalizzazione della cannabis o il fine vita.
Allo stesso tempo dobbiamo ripensare interamente il rapporto tra il Partito ed il territorio; ormai nell’era dei social e delle reti digitali, anche se bello, il motto “una sezione per ogni campanile” non funziona più.
Guardando oltre i nostri confini, posiamo vedere che le sfide che ci attendono sono ancora più grandi: la complessa situazione americana, il dramma umanitario della Siria, gli aiuti bloccati dai burocrati europei alla Grecia, la vittoria possibile dei nazionalpopulisti/euroscettici alle elezioni nazionali francesi, olandesi, tedesche e norvegesi del 2017, la mancanza di una gestione globale dei flussi migratori e l’incapacità delle classi dirigenti attuali di risolvere le complesse distorsioni generate dalla globalizzazione negli anni passati.

Soltanto uno stolto o un matto potrebbe non riuscire a cogliere la portate e la grandezza delle sfide che attendono il Partito Democratico, e che devono essere assolutamente risolte per evitare il ripetersi del disastro elettorale del 4 dicembre.
La speranza è quella del Congresso, ma anche qua: se il Congresso dovesse essere una semplice resa di conti per confinare Bersani e Speranza in una riserva, come gli indiani Sioux, non avrebbe senso e noi avremmo perso tutte le opportunità per rimetterci in connessione con il Paese.

La domanda da porci è : oggi, davanti alle sfide che ci attendono, qual è il Congresso migliore che possiamo fare?

La risposta, a mio avviso, è semplice. Due sono gli assi portanti che dovranno caratterizzare questo Congresso nazionale.
La prima è l’idea di fare un Congresso a tesi; il regolamento statutario prevede altro ma sono dell’idea che “le regole sono state fatte per essere cambiate”. Un Congresso a tesi permetterebbe al Partito di superare lo scontro interno, che all’esterno sembra esclusivamente uno scontro tra nomi, per spostarlo su uno scontro tra idee e visioni differenti. Allo stesso tempo, un congresso a tesi permetterebbe di rimettere anche nelle sezioni e nei circoli in moto una discussione e un dibattito interno che per troppi anni è stato silenziato dal confronto renziani-antirenziani. Un dibattito e discussione che magari potrebbe riportare le persone dentro le sezioni invertendo il trend negativo di iscritti al Partito.
L’altro pilastro su cui si deve basare il prossimo congresso è il riconoscimento del ruolo, e dell’importanza della militanza. Il prossimo Segretario del PD dovrà essere eletto dai militanti del PD, da quelle donne e uomini che spendono parte del loro tempo libero per fare politica nel PD. La militanza deve tornare ad assumere un suo valore; se no l’idea di un partito strutturato come argine all’individualismo e al populismo non regge e non assume più nessun significato.
Rispettando queste due questioni sul modo e la forma di come svolgere un Congresso; rivedendo le nostre risposte alla sfide e ai problemi dei nostri tempi allora potremmo veramente recuperare gli errori che abbiamo compiuto in questi tre anni e che ci hanno portato alla sconfitta referendaria del 4 Dicembre. Speriamo che il Natale porti saggi consigli!

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