Paolo Gentiloni

Debito pubblico: come se ne esce

Il Trattato di Maastricht prevede che, in presenza di un rapporto debito pubblico/PIL superiore al 60%, i governi devono impegnarsi a riportarlo, con ritmo adeguato, entro il limite. Nei primi anni dell’euro il parametro arrivò a quasi il 100% del PIL. Dal 2007 a oggi il debito è salito al 133%, per gli elevati deficit degli anni post crisi e per il crollo del PIL.

Pur con la correzione di 3,4 miliardi, il deficit “lordo” sarà del 2,4% del PIL quest’anno. Il deficit “strutturale” cioè “al netto degli effetti del ciclo economico”, dovrebbe scendere (non si sa come) solo nel 2019 allo 0,5% del PIL, il massimo previsto dal Fiscal Compact.

Il Fiscal Compact: L’accordo prevede diverse clausole o vincoli, tra cui:
1. l’obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio
2. l’obbligo di non superare la soglia di deficit strutturale dello 0,5% del PIL
3. ridurre il rapporto debito/PIL, di 1/20 di quanto eccede il 60% (circa il 3% annuo)
4. l’obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre sotto il 3% del PIL
Detti principi, sanciti dalla modifica del 2012 dell’art. 81 della Costituzione, sono stati sempre disattesi, negoziando “flessibilità” anno per anno con Bruxelles.

I deficit servono alla crescita? L’aumento della spesa ha inciso poco sulla crescita e sul lavoro, con un tasso di disoccupazione alto e stabile anche nelle previsioni del Governo (2016: 11,7%; 2017:11,6%; 2018:11,4%); ciò, nonostante gli incentivi alle assunzioni.

L’Italia non è stata virtuosa. Anche quest’anno le emissioni di titoli di Stato si gioveranno dello scudo della BCE, che continuerà a far scendere la spesa per interessi. Tuttavia, con l’aumento dell’inflazione europea, il mercato ha anticipato la riduzione del quantitative easing della BCE, causando un aumento dei tassi dei BTP e l’ampliamento dello spread.

Il debito è cresciuto per i troppi interessi: uno studio, riportato dall’agenzia Askanews, ha calcolato in 1.700 miliardi la spesa cumulata per interessi sul debito nei 20 anni dal 1992. In pratica, più di un anno di PIL è servito a pagare interessi, il che dimostra l’importanza della virtuosità nella gestione dei conti pubblici: più un paese è credibile, meno interessi gravano sul debito. La virtuosità paga due volte: la prima per minori spese per interessi, la seconda per la riduzione degli spread conseguente alla maggiore solvibilità percepita dai mercati.
I costi più alti risalgono agli anni ‘90, con 10 anni di interessi sempre sopra i 100 miliardi. Scendono a 70 miliardi nel 2005, per andare a 86 miliardi nel 2012. Grazie alla politica della BCE nel 2016 la spesa è ridiscesa a 66,5 miliardi; il Tesoro ha risparmiato almeno 50 miliardi di interessi nel quadriennio 2013 – 2016 ma i governi hanno usato male questi risparmi e la crescita è rimasta insoddisfacente.
In questo clima resistere alla correzione di 3,4 miliardi richiesta dalla UE è sbagliato, poiché per il 2018 ci attendono una grossa manovra o gli aumenti automatici dell’IVA.

L’Italia ha il terzo debito pubblico del mondo (dopo Stati Uniti e Giappone); è quindi il momento di decisioni importanti per evitare una ulteriore impennata dei tassi. Le prime avvisaglie si hanno già coi rendimenti dei BTP decennali raddoppiati rispetto a sei mesi fa. Oltre allo spread rispetto al Bund tedesco, preoccupa il divario coi Bonos, che segnala una minore credibilità rispetto alla Spagna.

Un confronto europeo: nel 2015, secondo Eurostat, rispetto al 2014, il deficit pubblico medio dell’UE sul PIL è diminuito. È sceso anche il debito pubblico/PIL dell’area (92,0% nel 2014; 90,7% nel 2015). Ben 17 Stati membri hanno questo rapporto sopra il 60%, coi rapporti più alti in Grecia (176,9%), Italia (132,7%) e Portogallo (129,0%). Nel 2015 il rapporto è aumentato in 10 Stati ed è diminuito in 18. Dai dati dei singoli Paesi non si trova una univoca correlazione tra spesa pubblica in deficit e crescita. La Germania, ad esempio, cresce più degli altri con bilancio in surplus da anni.

Continua l’effetto della BCE: Il quantitative easing proseguirà per tutto il 2017, ma i timori di instabilità politica e la debolezza dell’economia, spiegano l’impennata dei rendimenti dei BTP. Pesano pure i 20 miliardi del decreto “salva banche” che dovrebbero (forse) rientrare quando le banche ricapitalizzate torneranno di proprietà privata.

Come si riduce il debito pubblico? Le strade sono diverse e non alternative. La prima è l’attuazione del Fiscal Compact senza sconti. Un pareggio di bilancio, con inflazione sotto il 2% e crescita reale analoga, produrrebbe aumenti nominali del PIL sufficienti a portare in 20 anni le nostre finanze ai livelli tedeschi, con spread da paese “virtuoso”.
Il debito pubblico ammonta a circa 2.220 miliardi e il costo per interessi supera da sempre l’avanzo primario, cioè la differenza tra entrate e uscite. Il Documento di Economia e Finanza prevede una discesa del rapporto debito/PIL al 126,6% nel 2019, con saldi primari crescenti fino al 3,2% nel 2019 e una spesa per interessi in costante discesa. Un obiettivo impossibile se saliranno i tassi.
Il mix di bassa crescita, tassi e disoccupazione elevata può causare forti tensioni finanziarie e sociali. Uno scenario da incubo che farebbe crescere i partiti anti europei.

La questione banche: le banche italiane hanno una massa enorme di crediti deteriorati che, a giugno 2016, al netto delle rettifiche, era di 191 miliardi, il 10,4% del credito totale. Al lordo delle rettifiche, sono 360 miliardi di NPL; questi però rappresentano il valore nominale dei crediti, non il loro peso sui bilanci. Dei 191 miliardi di NPL, le sofferenze, cioè i crediti verso debitori insolventi, erano 88 miliardi, il 4,8% dei prestiti. I rimanenti 103 miliardi riguardano situazioni per le quali, se si consolida la ripresa, si potrà avere il ritorno alla regolarità dei pagamenti. Senza credito, le imprese non potranno investire e alimentare la crescita, ma senza crescita, le banche non aumenteranno i loro prestiti.

Aumentare le tasse o diminuire le spese? Uno studio della BCE spiega che risanare i conti con tagli di spesa è più efficace che farlo con aumenti delle tasse. Secondo gli autori, le manovre sulla spesa generano una riduzione durevole del rapporto debito/Pil, mentre con più tasse il rapporto tende a tornare ai livelli precedenti. Secondo la ricerca, il risanamento dal lato della spesa va attuato con tempestività, prima che la pressione dei mercati minacci la capacità di un Paese di emettere debito. Questa è l’opzione migliore anche se i governi preferiscono aumentare le tasse, dati i costi politici della riduzione della spesa pubblica.
Fondamentale la composizione della spesa: tagliando le spese improduttive, si possono pure ridurre le tasse. Il governo Renzi ha bloccato l’aumento delle imposte (diminuendo quelle centrali e causando l’aumento delle locali) ma sui tagli di spesa ha fatto poco. Nessun governo è finora riuscito a fare una vera spending review per ridurre la pressione fiscale e far partire la ripresa.

I tedeschi sono preoccupati del nostro debito: sanno che è impossibile salvare l’Italia in caso di shock su un debito così alto. È allo studio un quadro di regole da seguire nella ristrutturazione dei debiti pubblici per permettere ai mercati di reagire razionalmente in situazioni di emergenza e per costringere i Governi a maggiore disciplina. In particolare (questa la seconda strada percorribile) si propone “l’allungamento delle scadenze” del debito del Paese in difficoltà dopo una verifica del “Fondo salva stati” e, solo successivamente, la sua ristrutturazione. Viene chiarito che il debito si paga in euro, rendendo così più costosa l’uscita dalla moneta unica. A scoraggiare ulteriormente tentazioni del genere, il Presidente della BCE, Mario Draghi, ha dichiarato che, in caso di “exit” va pagato pure il saldo del sistema dei pagamenti Target2 (360 miliardi, per l’Italia pari in pratica agli acquisti BCE di titoli di Stato).

Chi pagherà il conto di un eventuale hair cut, un taglio del debito di importo consistente, cioè la terza strada percorribile? Nel caso dell’Italia – essendo il debito quasi tutto detenuto nell’area euro (banche italiane, risparmiatori, BCE e banche europee) – una ristrutturazione di questo tipo comporterebbe un onere a carico di questi quattro insiemi di investitori. Col rischio di perdite gravi dei risparmiatori e delle banche, che a loro volta dovrebbero aumentare il capitale.

Secondo uno studio della “Fondazione Res Publica”, lo Stato potrebbe tagliare il debito anche creando veicoli societari in cui convogliare propri attivi (immobili, partecipazioni, crediti ed altre attività) per 300 miliardi. Anziché BTP, il Tesoro collocherebbe titoli convertibili in azioni delle società veicolo con dentro i beni dello Stato. Ai sottoscrittori andrebbe una cedola più alta dei BTP fino alla conversione in azioni di tali società. Lo scambio BTP/azioni genererebbe il taglio del debito. Ovviamente va convinto il mercato della congruità dello scambio, servono investitori che comprano tali titoli e manager in grado di valorizzare tali asset. Anche se non è facile, il debito va comunque ridotto, anche ricorrendo ad impopolari atti straordinari.
Può farlo però solo un governo con la prospettiva di cinque anni, con una maggioranza stabile e coesa, perché manovre di questa importanza vanno impostate a inizio di legislatura e comportano polemiche e proteste che solo un governo solido può affrontare.

Nella foto di copertina: Il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni

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