Elsa Osorio

Elsa Osorio: “Doppio fondo”, un’altra storia argentina

Il 24 Marzo 1976 il sole si oscurò in Argentina: cominciò la lunga notte, buia e spaventosa, della dittatura militare capeggiata dal generale dell’Esercito Videla, che durò sette interminabili sanguinosi anni durante i quali furono commessi dalla Giunta al potere crimini indicibili. Una violenza bestiale ed omicida si scatenò contro gli oppositori, veri o presunti, del regime: fu perciò chiamata la “guerra sporca” (e la definizione è perfino troppo blanda). A migliaia i dissidenti venivano “prelevati” – per strada, nelle case, perfino da locali pubblici -, imprigionati, sottoposti a torture inumane. Alcuni centri di tortura sono rimasti tristemente famosi: uno era l’ESMA (la scuola militare della Marina, Escuela de Mecanica de la Armada, che dipendeva direttamente da uno degli autori del golpe, il comandante della Marina ammiraglio Massera), il più grande centro di detenzione illegale e di tortura; un altro era il famigerato Garage Olimpo – fu anche il titolo di un film presentato a Cannes, del 1999 -, uno dei più terribili (in tutta l’Argentina vi furono più di trecento prigioni segrete); di molti dei sequestrati non si seppe più niente, sparirono (i “desaparecidos“) senza lasciare traccia ed i loro corpi non furono più ritrovati; si è saputo, poi, che molti di quelli che non morirono sotto le torture furono vittime dei “voli della morte“: venivano presi dalle celle, di solito la notte del mercoledi, dicendo loro che si trattava di un “trasferimento” (“traslado“), imbarcati su aerei, leggermente anestetizzati (non sempre) e poi fatti cadere dall’alto in mare o in fiumi, dove morivano per i danni riportati nell’impatto con l’acqua o comunque per annegamento.

Perciò, a partire dal 30 Aprile 1977, ogni giovedi le madri delle persone sparite, che si erano riunite in Associazione, andavano a dimostrare in Piazza de Mayo, davanti alla Casa Rosada (il palazzo presidenziale), con un fazzoletto bianco (o con un pannolino di tela, quello utilizzato per i loro figli neonati) annodato sulla testa come simbolo di protesta, ruotando in silenzio intorno all’obelisco al centro della piazza: erano le Madres de Plaza de Mayo, che divennero famose in tutto il mondo (anche la loro fondatrice, Azucena Villaflor, nel dicembre 1977 fu rapita e fatta volare da un aereo nel Rìo de la Plata). Ad esse si aggiunsero le nonne (“abuelas“, in spagnolo. La fondatrice del loro movimento fu Estela Carlotto, un’insegnante argentina che aveva sposato un italiano là emigrato), che manifestavano per i bambini, quasi sempre neonati (“los nietos desaparecidos“, i nipoti scomparsi), che erano stati sottratti alle loro madri in carcere (spesso da quand’erano ancora incinte: la dittatura aveva apposta disposto che le donne gravide fossero – momentaneamente – risparmiate) prima che venissero uccise, ed in molti casi furono allevati sotto falsa identità – o con adozioni simulate, o falsificando l’atto di nascita – dalle famiglie degli stessi torturatori, come fossero un “bottino di guerra” del quale appropriarsi. Sparirono, perciò, i prigionieri politici (uomini e donne) ed i bambini sottratti alle madri detenute, ed in Plaza de Mayo le madri degli uni e delle altre (le detenute madri) denunciavano al mondo intero quell’oscenità e reclamavano di conoscere la sorte dei loro figli ed ottenere almeno la restituzione dei loro corpi o delle loro ossa (“per avere qualcosa su cui piangere”), e di sapere che fine avessero fatto i loro nipoti (le nonne ne hanno poi scoperto, negli anni, molte decine, grazie anche alla creazione di una “banca dati del DNA” che permette l’identificazione biologica dei ragazzi o giovani “sospetti” di essere stati rubati alla madre naturale). Donne straordinarie, madres e abuelas, con un coraggio incredibile che le portò a sfidare i militari gridando “Fuoco!“, quando quelli puntarono i fucili su di loro per farle andar via: uccideteci, non andremo via. Non se ne andarono.
Alla fine della dittatura è stato calcolato in oltre 30.000 (!) il numero di “desaparecidos“, ai quali vanno aggiunti almeno altri 15.000 che furono costretti a scegliere la via dell’esilio (anche ragazzi fra i 15 ed i 20 anni) riparando all’estero – nella massima parte dei casi non si sa dove siano andati, poiché hanno celato la loro identità per non essere individuati e raggiunti dai sicari del regime – per sfuggire a quei bestiali aguzzini. Crimini contro l’umanità, al pari di altri della Storia, che non possono e non devono conoscere perdono né oblìo: come è stato detto, “quel passato non può passare“, affinché non possa mai più – nunca mas! – ritornare.

Ormai di questi orrendi fenomeni della nostra storia recente – in Sudamerica la dittatura argentina, che terminò nel 1983, fu preceduta (dal 1973) da quella cilena del generale Augusto Pinochet, che durò ancora cinque anni dopo la caduta dell’altra (fino al 1988, quando un referendum non rinnovò il mandato presidenziale al dittatore, e furono indette nuove elezioni per il 1989) – c’è una vastissima (ma mai sufficiente) letteratura, di tipo sia storico-saggistico sia narrativo. E’ anche interessante la consultazione di un sito in italiano, www.24marzo.it (il richiamo alla data del golpe argentino è esplicito), creato apposta per diffondere informazioni e pubblicazioni relative a fatti e personaggi di quell’orrenda dittatura.
Per i testi di tipo storico-saggistico, desidero segnalarne due (dai quali derivano molti dei dati qui riportati), forse ancora rinvenibili, del valoroso giornalista Italo Moretti, che in America del Sud ha trascorso molti degli anni della sua vita professionale: il primo, del 2000, intitolato appunto “In Sudamerica” (ed. Sperling & Kupfer), diviso in due parti, una dedicata alla dittatura cilena e l’altra a quella argentina, con un’attenta ricostruzione del contesto socio-politico che le aveva precedute e di come esse nacquero, si manifestarono e finirono; l’altro, del 2006, intitolato “L’Argentina non vuole più piangere” (stesso editore), che esamina gli anni, come recita il sottotitolo, “Da Peròn a Kirchner” (cioè dal 1943 al 2006), evidentemente dedicato alla sola Argentina. Moretti è un saggista estremamente preciso e documentato, che espone con compiutezza ed asciutta eleganza formale gli argomenti di cui tratta.

Credo, poi, che meriti di essere segnalato, fra i testi di tipo narrativo, un libro di Massimo Carlotto, del 1998, intitolato “Le irregolari” (ed. E/O), che racconta di un viaggio appositamente fatto dall’autore a Buenos Aires con una breve puntata in Cile (il sottotitolo recita, significativamente, “Buenos Aires horror tour“: ma non è “turismo dell’orrore“, bensì un viaggio nella memoria orribile), che “racconta in modo completo, documentato e rigoroso la storia della guerra sporca della dittatura argentina e la battaglia – e, purtroppo, le divisioni che intervennero al loro interno – delle nonne e delle madri di Plaza de Mayo” (sono loro “le irregolari“, così definite perché non si piegarono alla regola del silenzio imposta dal regime assassino): un libro vibrante di passione civile, durissimo e sofferto in alcune sue parti per gli episodi che descrive, benché assolutamente ancorato ai fatti. Un libro da leggere, lo dico senza esitazione, per chi voglia capire da testimonianze dirette quale inferno c’è stato laggiù, mentre noi in Occidente eravamo spesso distratti.

Ma la ragione specifica da cui originano queste note è quella di segnalare il nuovo libro di una bravissima scrittrice argentina, Elsa Osorio. E’ nata nel 1953 a Buenos Aires e di sé ha detto, in una recente intervista: «La dittatura ha spezzato in due la nostra vita. E lo ha fatto nel periodo in cui iniziavamo ad avere figli e una vita lavorativa. Io ho vissuto un esilio interno, nascosta per un po’ in Argentina con il mio ex marito; poi in Francia ed infine siamo ritornati. Ma non potevo lavorare perché vigeva la legge di sicurezza nazionale ed ero stata licenziata. Non ho mai fatto parte di gruppi armati; semplicemente ho sempre pensato con la mia testa e al massimo ho avuto rapporti con il sindacato. Per molto tempo non sono stata in grado di scrivere; non perché qualcuno me lo impedisse, ma per una sorta di mia evoluzione interiore. Ci sono riuscita solo dopo 20 anni dal golpe». Elsa Osorio non ha scritto moltissimi libri, e non tutti sono stati tradotti in italiano: ma sono tutti bellissimi (almeno quelli tradotti).
Ormai molti anni fa (da Guanda nel 2000; poi in edizioni TEA) fu pubblicato in ItaliaI vent’anni di Luz“, che racconta la storia di una ragazza argentina ventenne (da cui il titolo) che scopre di non essere figlia di coloro che credeva fossero i suoi genitori ma di essere stata sottratta, appena nata, ad una prigioniera politica morta in carcere, e va alla ricerca del padre che ha scoperto essere ancora vivo: un libro avvincente, molto intenso nelle descrizioni delle infamie messe in atto dalla dittatura argentina, che non a caso ha venduto oltre mezzo milione di copie in Europa. Una storia di quelle richiamate più sopra denunciate dalle “madres” e dalle “abuelas“, emblematica di molte altre di quel tempo in quella terra, raccontata in modo magistrale. Un libro da recuperare o da rileggere.

Come già accennato, Elsa Osorio è di recente tornata in libreria con un’opera, intitolata “Doppio fondo” (ed. Guanda, 410 pagg., 19,50 euro), che narra un’altra storia della dittatura argentina. Lo si può dire subito: un libro bello come l’altro o forse ancora di più, avvincente e commovente come l’altro, e come l’altro scritto molto bene (e con un’ottima traduzione). Che si avvale, inoltre, e questo aumenta il suo interesse e la sua godibilità, di una soluzione narrativa del tutto originale: il racconto si svolge su due piani distinti ma infine convergenti, inframmezzati da brani in carattere corsivo il cui senso si scoprirà solo con la lettura delle pagine finali (dopo le quali conviene rileggere per intero, tutta di seguito e saltando il resto, la parte in corsivo, per comprenderne appieno il senso umano e politico). Vi è, come si è detto, una narrazione doppia: da un lato la vita di Juana, una giovane oppositrice argentina aderente alla lotta armata nelle file dei Montoneros (l’organizzazione della sinistra rivoluzionaria peronista; prima aveva militato nelle FAR, Fuerzas Armadas Revolucionarias), catturata dai militari pochi mesi dopo il golpe ed imprigionata insieme al suo bambino di tre anni («ne aveva passate di tutti i colori: il bagagliaio dell’auto, con lei che gridava e il bambino che piangeva, la branda della cella numero 13 nel sotterraneo dell’ESMA…..»), il suo passaggio nell’inferno della detenzione e della tortura («ci uccidevano a ripetizione, ci frantumavano, ci facevano a pezzi. Ci distruggevano. Ci eliminavano. Ci spolpavano. Ci svuotavano di noi stessi. Lì si toccava il fondo ogni giorno………..Era tutto folle, così folle quello che le circostanze ci hanno spinto a vivere»), la sua forzata “cooptazione” nei servizi del regime e tutta la vicenda da lei vissuta per tentare di riconquistare la libertà fisica e psicologica, e con questa la sua dignità avvilita («quello che restava di me era un essere amorfo che ogni giorno doveva imparare a resistere ancora un giorno, e poi un altro, e un altro ancora»); dall’altro lato il ritrovamento in Francia, nel 2004, di una donna annegata in mare, con sorprendenti e sospette fratture alle gambe, che desta la curiosità di una giovane e spumeggiante giornalista e del suo brillante compagno che si mettono ad indagare su questo caso, con uno svolgimento molto intrigante per le varie personalità che via via la storia coinvolge, con un ritmo da thriller che assume sempre più caratteri storico-politici. Ne viene fuori un mix appassionante che tiene incollato il lettore alle pagine, per i vari ed altalenanti registri che tocca; ma talvolta il libro deve essere chiuso per “respirare“, per governare la commozione che suscita e che in alcuni momenti rischia di riuscire troppo coinvolgente, insostenibile.

Non è per nulla che il grande scrittore cileno Luis Sepulveda, che ha conosciuto e pagato un doloroso tributo anche personale e familiare all’infame dittatura del suo Paese (lui era uno dei “ragazzi di Allende“, nel 1973), ha parlato di “maestria letteraria” e di “sapienza narrativa” di Elsa Osorio nel descrivere da un lato “la fragile linea che separa il tradire sotto tortura dal simulare la sconfitta definitiva, cedendo e addirittura collaborando con la repressione, ma senza fare il nome di nessuno dei compagni di lotta e cercando di salvare quanto c’è di più intimo e personale, l’unica ragione per aggrapparsi alla vita: ciò che si ama e che col suo amore ci fa sopportare tutto“, e dall’altro la bravura “di una giovane giornalista di provincia, uno studente di storia e un’anziana vicina di casa della donna morta, che pazientemente scoprono chi era quella donna, e come e perché è morta, e prendono posizione e si mettono in gioco per il più semplice atto di giustizia: restituire alla donna ciò che ha amato sopra ogni cosa“. Ed ha aggiunto: “Nella storia dei nostri Paesi, molti scrittori hanno assunto la carica di cronisti della storia non ufficiale, combattendo le leggi per l’amnistia. Siamo stati dei vigilanti della memoria, senza sacrificare la qualità letteraria che è necessaria per scrivere un buon libro“: Elsa Osorio è esattamente questo, una grande scrittrice che fa la “vigilante della memoria“. E perciò – ancora Sepùlveda – “Doppio fondo può essere definito in un solo modo: un romanzo indispensabile“.

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