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Gli inglesi votano Brexit e poi chiedono a Google cos’è l’Unione Europea

I cittadini britannici si sono espressi, la maggior parte di loro ha votato a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. L’opzione “Leave” ha vinto con il 51,9% dei voti, contro il 48,1% del “Remain”. Ma il risultato evidenza le molteplici fratture del Regno Unito.

“Cosa è l’Unione europea?”. A poche ore dall’esito del referendum che ha sancito la Brexit, è questo il quesito più ricercato sul web nel Regno Unito. Milioni di britannici, nella notte tra giovedì e venerdì, hanno chiesto a mister Google una risposta. “Cosa sarebbe successo in caso di uscita della Gran Bretagna dall’Europa?”. Questa la domanda più quotata, secondo i dati di Google Trends, che ha registrato un’impennata di richieste sul tema nelle ultime ore. La domanda è cresciuta in modo esponenziale dopo la fine delle operazioni di voto.

Una domanda che ci lascia sconcertati: come è possibile che milioni di persone si siano espresse su un quesito tanto chiaro senza avere idea di cosa fosse l’Unione Europea?

I GIOVANI PER IL REMAIN – Al di là dello stupore, il dato ci racconta le fratture con cui deve fare i conti il Regno Unito: uno scontro generazionale e territoriale. Un sondaggio di YouGov illustra come i giovani si sarebbero espressi in massa per rimanere: il 75% dei cittadini di età compresa fra i 18 e i 24 anni avrebbe scelto il Remain. Il contrario (ovvero l’appoggio al Leave) si legge piuttosto fra anziani e coloro che hanno titoli di studio inferiori ancorati al miraggio di un Commonwealth ormai retaggio dei secoli passati. La situazione diventa ancora più paradossale se consideriamo che i giovani dovranno vivere ancora per almeno 50 anni in questa Europa frutto della visione (e delle paure) di chi ha una prospettiva di vita molto inferiore.

I CASI SCOZIA, IRLANDA DEL NORD E GIBILTERRA – Ma non solo. Qualche giorno fa, ancora prima che gli elettori si recassero alle urne, gli indipendentisti dell’Snp avevano evocato la possibilità di riorganizzare un referendum per ottenere l’indipendenza della Scozia. Proprio per questo motivo Nicola Sturgeon, prime minister scozzese, ha confermato che l’ipotesi di un referendum è «sul tavolo», puntando poi dito contro la scelta di Londra: «L’establishment di Westminster deve far un esame di coscienza». Una frattura, inaspettata e forse per questo ancora più dolorosa è quella con l’Irlanda del Nord: il 55,8% degli elettori ha votato per rimanere in Europa. E c’è già chi parla di un ipotetico ricongiungimento con la cattolica Irlanda per distaccarsi dalla Brexit e restare nell’Unione. Su questo solco si colloca anche Martin McGuinness, vicepremier dell’Irlanda del Nord e leader del partito cattolico Sinn Fein, che ha parlato al Guardian dicendo che il voto avrà «enormi conseguenze per l’intera isola d’Irlanda, che andrebbero contro le aspettative democratiche del popolo e l’elettorato dovrebbe avere il diritto di votare per mantenere un ruolo nell’Ue». Un terzo territorio che si è espresso per il Remain è Gibilterra: nella Rocca gli abitanti hanno votato in massa per rimanere nell’Unione con il 95,6% delle preferenze per il Remain. Non ha perso tempo il Ministro degli Esteri spagnolo che ha proposto una co-sovranità con la Spagna per amministrare Gibilterra.

LE DIMISSIONI DI CAMERON – Il 24 giugno, David Cameron, miope promotore di questo referendum, visti i risultati ha annunciato le dimissioni. A ottobre ci sarà un nuovo primo ministro, nel frattempo Londra e la Gran Bretagna dovranno comprendere quali saranno le realtà conseguenze di un voto che ha spaccato il paese e il continente. I vincitori – Nigel Farage, Boris Johnson – non hanno fretta, chissà se si aspettavano davvero di vincere. Si godono i complimenti dei colleghi europei: Marine Le Pen, Geert Wilson, Matteo Salvini non hanno perso tempo per correre sul carro dei vittoriosi con bandiere, entusiasmi e proposte emulative populiste sperando in un suicidio di massa degli stati europei.

I NEGOZIATI – Concretamente ora si apre una lunga fase di negoziati per ridefinire i rapporti tra Regno Unito e il resto dell’Unione europea. Ci sono due anni di tempo per riscrivere le regole di una convivenza ma sono 80mila le norme da modificare. Gli animi ora sono accesi. Il presidente della Commissione Ue: «Voglio subito la richiesta di avvio dei negoziati». Il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier: «Nessuno ci ruberà la nostra Europa». A Bruxelles si dimette il commissario inglese Hill: «Ora passaggio di consegne ordinato». Il tempo e la diplomazia faranno il suo corso e se non ci saranno nuovi referendum i modelli da imitare sono tre: la Norvegia, la Svizzera, il Canada. Nel frattempo la libertà di circolazione dei cittadini britannici in Europa è compromessa, il loro potere d’acquisto cala vertiginosamente, cresceranno i prezzi dei biglietti aerei. I cittadini UE in Gran Bretagna diventeranno extracomunitari e avranno bisogno di uno speciale permesso di soggiorno, le pensioni degli espatriati si scioglieranno come neve al sole, i funzionari europei a Bruxelles e Strasburgo non hanno idea di cosa accadrà del loro futuro.

Gli alti funzionari delle banche già sussurrano che dovranno spostare migliaia di posti di lavoro da Londra a Dublino, Francoforte o Parigi perché l’Ue non gli permetterà di operare in Europa se non sono nell’Ue. Il ragionamento non fa una grinza ma farà malissimo a un’economia inglese che deriva quasi il 10% del Pil dai signori e dalle signore del denaro. Il successore di Obama, inoltre, dovrà prendere una decisione che nessun Presidente americano ha dovuto prendere nell’era moderna: scegliere tra l’Europa e la Gran Bretagna come «alleato favorito». Da una parte c’è la relazione militare con uno dei pochi paesi che ha un esercito forte e la voglia di usarlo, dall’altra il mercato economico più florido e ricco di scambi al mondo, quello dell’Unione Europea.

LA PERCEZIONE DELL’EUROPA – Tecnocratica, profondamente ingiusta e governata dai mercati finanziari. Questa non è solo la percezione che i cittadini europei hanno dell’Unione Europea, ma è la fotografia di quello che è diventata. L’Europa delle diseguaglianze, additate da tutti come causa del crescente populismo, non è frutto del caso, ma la naturale conseguenza delle politiche economiche imposte dalle élite finanziarie agli stati membri per aumentare il proprio potere speculativo. L’impressione è che meno spazio c’è per la partecipazione, più sono soddisfatti i “poteri forti” di governi ed élite finanziarie. Voteremo sempre di meno: anche la riforma costituzionale Renzi/Boschi sembra andare nella stessa direzione. Basti pensare al fatto che il Senato non sarà più eletto dai cittadini, ma nominato, oppure all’ala di mistero che circonda le trattative su accordi fondamentali come il TTIP e il CETA.

La soluzione, tuttavia, non è un’uscita di massa, una disgregazione europea o una revisione dei trattati che produca un’Europa a due velocità. Al contrario, a mio avviso è necessario un nuovo patto costituente: coraggioso, condiviso, democratico ma soprattutto più politico e meno economico. La Brexit è una fantastica occasione per crescere e andare avanti, più forti di prima, riscoprendo quei valori europei che, evidentemente, non vedevamo più perché coperti da una tecnocrazia finanziaria lontana dai cittadini.

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