Lavoro Istat

I dati occupazionali Istat: deformazioni ed (in)utilizzabilità

Siamo alle solite: parliamo dei dati occupazionali pubblicati il 31 Agosto dall’Istat e rivendicati con entusiasmo a proprio merito da esponenti del Governo attuale e da quelli del precedente. Le fonti ed i dati finali:

I) Occupati in Febbario 2014 (Rapporto Istat del 1 Aprile 2014), Prospetto 2 a pag. 2): 22.216.000.

II) Occupati in Luglio 2017 (Rapporto Istat del 31 Agosto 2017), Prospetto 1 a pag. 2): 23.063.000

La differenza fra gli “occupati” (sarà chiarita più avanti la ragione delle virgolette), così come l’Istat li definisce, è dunque di 23.063.000-22.216.000=847.000. Non si capisce quindi come faccia Renzi a sostenere che (lo ha fatto in interviste in Tv, ma vedere anche quanto riportato da Repubblica) «+918mila posti lavoro da febbraio 2014 a oggi. Il milione di posti di lavoro lo fa il Jobs Act».

Di conseguenza:
a) Il numero – quel «+918mila posti lavoro da febbraio 2014 a oggi » – di cui parla Renzi (e con lui i suoi “diffusori” di partito e di Governo) è, semplicemente, falso: basta leggere i Rapporti Istat che vengono esplicitamente richiamati (l’impudenza non ha confini) da Renzi &C.
b) in un Paese che ha circa 6 milioni di inoccupati (di persone che non lavorano e che vorrebbero farlo, comunque vengano classificati nelle varie categorie statistiche), a questi ritmi di incrementi “occupazionali” quanto tempo occorrerà per dare lavoro a chi non ce l’ha (sia che l’abbia perso, sia che non l’abbia mai avuto) e ne ha bisogno? La domanda va rivolta, soprattutto, a disoccupati e precari ed alle loro famiglie, perché è facile sostenere che ci vuole “pazienza e fiducia” quando sono altri a soffrire delle situazioni e si trovano non di rado in condizioni disperate (rifuggiamo da altri esempi, diffusi ma volgari).
c) si deve poi osservare (Prospetto 3 a pag. 3) che, dei 23.063.000 “occupati“, i lavoratori dipendenti sono 17.723.000, con un incremento netto di 378.000 fra Luglio 2016 e Luglio 2017; di quei 378.000, quelli “permanenti” sono stati 92.000 (il 24% del totale), mentre quelli “a termine” sono stati 286.000 (il 76% circa del totale). Se questo è, come dice Renzi, «effetto del Jobs Act», non si può non riconoscere – altro che l’entusiasmo di Renzi, Poletti e compagnia! – che il “Jobs Act“, con tutti i miliardi che è costato, contribuisce per meno di un quarto ai “posti di lavoro stabili” creati: in parole vere, un fallimento, se si fa il confronto fra costi e risultati.
d) ultima nota dolente: di quei 378.000 “occupati in più” da un anno all’altro, ben 371.000 sono nella fascia di età 50-64 anni (Prospetto 4 a pag.4); nella fascia 15-24 anni si registra un aunento di 47.000; nelle fasce 25-34 e 35-49 una perdita complessiva di 124.000 (+371.000 +47.000 – 124.000=+294.000 e non +286.000: i dati Istat sono leggermente discrepanti con se stessi, per quanto sorprendentemente, ci deve essere un errore su qualche cifra ma non si sa su quale). E’ del tutto evidente “l’effetto Fornero“: il numero di “occupati” aumenta essenzialmente per l’innalzamento dell’età pensionabile (quei 371.000 ultracinquantenni in più, rispetto ad un anno fa, non è che abbiano tutti trovato lavoro: gran parte di loro semplicemente è rimasta al lavoro, per l’impossibilità di andare in pensione). Bell’effetto.

Ciò premesso, ragionando sui dati divulgati dall’Istat e sull’uso che ne viene fatto, bisogna dirlo apertamente una volta per tutte: i dati volta a volta pubblicati dall’Ente di statistica non sono utilizzabili per fare confronti. Per comparare due o più grandezze, occorre che esse siano omogenee (secondo un esempio da scuola elementare, non si possono confrontare le pere con le mele): i dati occupazionali pubblicati dall’Istat non lo sono. Si tratta, occorre dirlo, non di numeri utilizzabili per analisi sociologiche, ma di semplici rilevazioni il cui senso e la cui portata non sono immediatamente comprensibili.
La ragione è evidente ed è stata, anche da chi scrive, più volte sollevata: come si legge nella “Nota metodologica” (pag. 8), «La rilevazione sulle forze di lavoro è una indagine campionaria condotta mediante interviste» (analogamente, peraltro, a quanto avviene negli altri Paesi europei); i criteri seguiti per la catalogazione degli intervistati sono i seguenti (pag. 10): «gli occupati, coerentemente con gli standard dell’ILO [NdC: Ufficio Internazionale del Lavoro], costituiti dalle persone che hanno svolto almeno un’ora di lavoro retribuita nella settimana di riferimento (oltre alle persone assenti dal lavoro in quella settimana); i disoccupati (o persone in cerca di occupazione), che cercano attivamente un lavoro e sarebbero immediatamente disponibili a iniziare a lavorare; gli inattivi (o non forze di lavoro), che non lavorano e non cercano lavoro (o non sarebbero disponibili a iniziare a lavorare), per esempio perché impegnati negli studi, in pensione, o dediti alla cura della casa e/o della famiglia. Gli occupati e i disoccupati, insieme, costituiscono le forze di lavoro, cioè la parte di popolazione attiva nel mercato del lavoro».
Quindi basta aver lavorato anche soltanto un’ora (!) per essere considerati e catalogati come “occupati” (si capisce che le virgolette sono d’obbligo, dato il criterio seguito): a qualcuno può scappare da ridere, e non si può dargli torto (in realtà c’è da piangere).

Due questioni:
i) che senso ha parlare di “X milioni di occupati” senza sapere non solo che abbiano lavorato, ma per quante ore? Il reddito da lavoro (ciò di cui vive la quasi totalità della gente) dipende direttamente dalle ore lavorate, e la ricchezza nazionale è in buona parte costituita dalla somma dei redditi da lavoro: le “rilevazioni occupazionali” fornite dall’Istat (come da altri Enti statistici) non permettono di farsi alcuna idea su come stiano realmente andando le cose nel vivo del corpo sociale.
ii) è materialmente impossibile confrontare fra loro le “rilevazioni occupazionali” effettuate in tempi diversi. Ad esempio chiarificatore: se oggi gli individui a,b,c dichiarano di aver lavorato in due soltanto e per complessivamente 10 ore, e domani gli individui x,y,z dichiarano di aver lavorato tutti e per complessivamente 8 ore, la statistica Istat segnerà un “incremento occupazionale” (da due a tre occupati), mentre in realtà c’è stata una riduzione di ricchezza (nell’ipotesi di parità retributiva, che sarebbe invece ancora un altro parametro da considerare: i dati “occupazionali” non indicano né la qualità del lavoro né la sua retribuzione) che non viene rilevata ed è dovuta alla riduzione da 10 a 8 ore di lavoro prestate.

Di conseguenza, sapere dall’Istat che oggi rispetto a ieri ci siano più o meno “occupati” non serve a capire se il Paese stia andando meglio o peggio: quindi è bene non farsi incantare, e dare alle cose il peso che realmente meritano (e, ovviamente, non dare retta ai propalatori di notizie false ed interessate).

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