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Il “narcisismo politico”: come si manifesta, e come curarlo?

In questo articolo, vorrei soffermarmi su alcuni “luoghi comuni”, su alcuni discorsi ricorrenti, che ci accompagnano in questa campagna elettorale: possiamo anche dire, scherzosamente, che vorrei trattare un particolare fenomeno patologico: la sindrome del “narcisismo politico”.
Partiamo da alcune premesse. Una campagna elettorale non si gioca solo sulla forza e la suggestione dei messaggi che “passano” attraverso i mass-media: contano molto anche i discorsi quotidiani, le conversazioni politiche che si svolgono in famiglia, durante le cene tra amici, nei luoghi di lavoro. Gli stessi messaggi che arrivano dai media vengono filtrati e re-interpretati da chi li riceve, e da qui si diffondono, attraverso reti di relazioni personali, in genere piuttosto ristrette.
I percorsi attraverso cui si forma una scelta di voto sono complessi: la classica tripartizione tra “voto di appartenenza”, “voto di opinione” e “voto di scambio” non ha perso la sua validità, ma certamente diversa è la forma che queste diverse tipologie oggi assumono. In particolare, il “voto di appartenenza” ha perso i caratteri di un tempo: quando i partiti erano identificabili attraverso una precisa cornice ideale (comunisti, socialisti, liberali, repubblicani, democristiani…), il senso dell’appartenenza maturava attraverso complessi processi di maturazione politica e intellettuale: contava la tradizione familiare, l’ambiente sociale in cui si viveva, e contavano i “maestri” (e poteva ben esserlo anche un operaio incontrato in sezione), che si aveva la fortuna di frequentare o di leggere sulle pagine di un libro: ci si riconosceva in un insieme di idee e di ideali, che poi – solo poi – trovavano anche una sintesi nella personalità dei leader. Oggi è tutto più volatile, o “liquido”, come si suol dire.

E allora l’elettore è lasciato solo con se stesso, indotto a cercare delle “scorciatoie cognitive”, ad affidarsi a meccanismi elementari di identificazione: l’immagine che ci si è fatta di un leader, le idee più o meno raccogliticce che si raccolgono nei media o nei social, l’impressione che si ricava da un talk-show televisivo … Alla fine, l’assenza di luoghi e di momenti in cui si possa praticare un ragionamento politico, produce la solitudine dell’elettore: e quindi, non avendo più modo di confrontarsi con gli altri, la scelta politica diviene tendenzialmente solipsistica o, comunque, si forma entro cerchie ristrette, tra individui che la pensano allo stesso modo. Alla fine ci si convince di qualcosa, e difficilmente questa convinzione trova modo di essere messa alla prova di un dialogo razionale. La politica ha perso ogni dimensione collettiva: e così, sempre più spesso, il cittadino-elettore si illude che le “proprie” idee siano tutte “sue”, laddove magari le ricava in modo del tutto causale e irriflessivo dalle cose disparate che gli capita di ascoltare.

Detto ciò, possiamo tornare al “narcisismo politico”: in che cosa consiste? Come si manifesta?
Intanto, diciamo subito che i soggetti particolarmente “a rischio” sono alcuni elettori di sinistra, che vorrebbero una sinistra a propria immagine e somiglianza, perfezionisti, preda di una irrefrenabile voglia di “purezza”.
Un “narcisista politico” è quell’individuo che, nel valutare le proprie possibili scelte di voto, assume come unico, inappellabile metro di misura, il grado con cui una determinata offerta elettorale riesce a rispecchiare interamente le proprie idee. Un “narciso”, si sa, è colui che si compiace di contemplare la propria immagine riflessa: un “narciso politico” è colui che pretende, con inflessibile rigore, che l’offerta elettorale che gli viene prospettata sia perfettamente collimante con le proprie idee e opinioni. Un “narciso politico”, peraltro, non ha dubbi di sorta: le proprie idee sono chiare e distinte, non è corroso dal tarlo dell’incertezza, sa già perfettamente ciò che vuole. E, dunque, per concedere il proprio voto a qualcuno, questi deve riflettere l’immagine di sé che ci si è costruito.

Vi è un chiaro sintomo, che permette di individuare questa sindrome, e lo si può cogliere nei discorsi comuni che spesso si sentono durante una campagna elettorale. Capita, ad esempio, che qualcuno dica: “se quella lista candida Tizio, allora io non la voto”…”se c’è lui, allora non ci sono io…”. Cosa sottende questo modo di esprimersi? L’idea che si possa stare solo tra chi la pensa esattamente allo stesso modo, e che il voto sia l’espressione di un’identità a tutto tondo, integrale, senza residui: il proprio Ego diviene la misura di tutte le cose. “Meno siamo, meglio stiamo”, in fondo: ci si sottrae alla fatica della contaminazione. Il “narciso politico” teme il contatto, esige la purezza, rifugge dalle imperfezioni.
Questa sindrome, quando si avvicinano le elezioni, si acuisce e assume anche forme epidemiche: la “retorica dell’intransigenza” celebra i suoi fasti. Ma con un singolare rovesciamento di prospettive: tanto più radicale e globale è il rivolgimento sociale che si desidera, tanto più sorprendentemente ingigantito ed esasperato si rivela il ruolo che si attribuisce al momento elettorale. L’intransigenza si abbina così al più vieto elettoralismo. Il momento del voto diviene l’acme della propria identità politica, il luogo in cui esprimere l’integrità di se stessi (o di quello che si pensa di essere).

Ma, in realtà, occorre ricordarselo, le elezioni sono uno strumento della democrazia, non la esauriscono; il voto è un momento importante di partecipazione politica, attraverso cui si costruisce una rappresentanza parlamentare: non sono l’unico luogo della partecipazione. Coloro che si pongono l’obiettivo di una radicale trasformazione sociale dovrebbero sapere che un tale obiettivo richiede un lavoro di lunga lena, la nascita di grandi movimenti di massa, la “molecolare” capacità di cambiare la coscienza degli individui. Ed è singolare, invece, che tutto “precipiti” nel momento elettorale: come se, nella scelta della lista da votare, si dovesse esaurire l’intera propria capacità di esprimersi politicamente. Le elezioni, e le liste che si presentano, sono uno strumento in sé imperfetto: una valutazione ragionevole dovrebbe condurre ad una ponderazione tra le proprie idee e ciò che più ad esse si avvicina, ma anche ad una considerazione comparata sull’efficacia relativa delle diverse scelte. E’ qui che si misura la vera “utilità” del voto.

Cosa ne deriva per questa campagna elettorale, e per coloro che – come me – sono convinti sostenitori di Liberi e Uguali? Beh, posso limitarmi a qualche consiglio, che nasce da esperienze personali fatte in questi giorni. Sicuramente, incontrerete qualcuno che vi dirà: “sì, va bene, ma con voi c’è Tizio, ed io non mi fido”. A questo punto, dovete armarvi di pazienza (dote fondamentale per le discussioni in campagna elettorale) e assumere un tono conciliante: “d’accordo, LeU ha molti limiti, ma ha anche alcuni pregi, che altri non hanno…Non è la sinistra che tu ed io vorremmo, ma un buon risultato di questa lista è la sola premessa per avvicinarci all’idea di sinistra che abbiamo. E’ vero c’è Tizio, ma ci sono anche Caio e Sempronio [e qui bisogna citare uno o più altri candidati che si presume il tuo amico possa apprezzare]. Pensi forse che approdino da qualche parte quei simpatici ragazzi di Potere al Popolo? O che serva a qualcosa starsene a casa? In fondo, votare serve a portare qualche voce in Parlamento che rappresenti almeno un po’ le tue idee e che lo faccia efficacemente: nulla di più, ma anche nulla di meno. Magari lì per lì potrai trovare gratificante il fatto che senti rispecchiato ciò che pensi, ma poi? Cosa rimane, oltre questa tua effimera soddisfazione”? Certo, potrà non bastare, questo appello alla ragionevolezza, al dubbio metodico, alla fecondità del dialogo e del confronto: il “narciso politico” tende a costruirsi una robusta corazza. Ma almeno si può provare a scalfirne le coriacee certezze.

Naturalmente, non c’è solo questo fenomeno da osservare: forse ancora più diffuse sono le figure degli elettori depressi, rancorosi, inaciditi…Ne parleremo in una prossima puntata di questo nostro breve trattato di “psicopatologia politica” da campagna elettorale, iniziando da un particolare soggetto: un elettore storico del PD, afflitto da una profonda depressione, tentato da un gesto di rottura con il Padre-Partito, e nondimeno incapace di fare il grande passo, sentito come un “tradimento”? Beh, qui ovviamente, i discorsi saranno diversi…

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