Lavoro

Il rischio della svalutazione del lavoro

Il lavoro è il tema centrale specie per una forza di sinistra, per cui l’interesse a seguirne le vicende anche mese dopo mese è pienamente giustificato. Così facendo si rischia però di perdere la visione di fondo, attribuendo al governo attuale – e a quelli che lo hanno poco prima preceduto – ora i meriti, ora le colpe della sua dinamica; con ciò si asseconda implicitamente l’idea che l’attuale fase dello sviluppo sia determinata dalle scelte degli ultimi governi e, in particolare, parlando di mercato del lavoro, dal Jobs Act.
Se ci fissiamo in una discussione sul Jobs Act ritenendolo responsabile dei successi/insuccessi recenti dimentichiamo che è dalla metà degli anni novanta che la nostra crescita e la nostra competitività si è basata sul contenimento del costo del lavoro. Le riforme Treu (1997) e la legge Biagi (2003) hanno avviato questa stagione ritenendo che il nostro mercato del lavoro fosse troppo rigido, nell’idea che una giusta dose di flessibilità avrebbe aiutato non solo ad aumentare l’occupazione, ma avrebbe anche migliorato l’efficienza dell’intero sistema e quindi la sua competitività.
Sul primo fronte qualche successo è stato ottenuto in quanto l’occupazione è in effetti aumentata (almeno sino all’inizio della crisi), mentre sul secondo gli esiti sono stati assai più incerti in quanto non vi è stato in quegli anni un aumento della produttività e con essa delle retribuzioni. Nel 2007 le retribuzioni orarie dei lavoratori italiani erano assai più basse di quelle dei lavoratori tedeschi o francesi (circa il 30% in meno): è solo lavorando di più (1650 ore l’anno contro le 1450 dei francesi e le 1350 dei tedeschi) che veniva recuperata parte di quella differenza.
Nel corso degli anni che vanno dal 2008 al 2013 le ore di lavoro sono crollate assai più del numero di occupati; le retribuzioni procapite sono quindi diminuite, diventando talvolta insufficienti a garantire un adeguato tenore di vita: non mancano, infatti, tra i poveri anche persone che un lavoro ce l’hanno (i cosiddetti working poors). La successiva ripresa (quella dopo il 2013) è ritornata sulle regole del passato con aumenti occupazionali senza però alcun aumento di produttività e, quindi, delle retribuzioni (e con condizioni di lavoro tutt’altro che desiderabili).
Il nostro modello di sviluppo non si è, quindi, emancipato dalla caratteristica – antica – di esercitare la propria competitività sui costi; è solo cambiato lo strumento: prima si abbassavano tramite la svalutazione (cosiddetta, appunto, ”competitiva”), dopo – e ancora oggi – attraverso la svalutazione del lavoro.

Del resto, viviamo in un sistema capitalistico ed è quindi il capitale che decide dove andare, quale lavoro occupare, come occuparlo e quanto pagarlo; assecondare troppo le esigenze del capitale significa frenarne le spinte al cambiamento. Se il capitale viene difeso da forme di rendita o di eccessiva protezione, se le esigenze di reperire lavoro a basso costo vengono favorite da legislazioni accomodanti, è difficile che il sistema si inoltri nella strada, assai più faticosa, dell’innovazione e del cambiamento. Non che nel paese manchino imprese virtuose ed innovative (lo dimostrano i successi sull’export), ma rappresentano solo una parte piccola dell’intero sistema.
Più che la continua legiferazione che vi è stata sul mercato del lavoro preoccupa la scarsa attenzione rivolta ai processi di investimento, con l’obiettivo di indirizzarli verso forme che richiedono lavoro qualificato, stabile e anche ben remunerato: si sta parlando in altre parole di politica industriale, troppo assente nel nostro paese.

Né deve confonderci l’attenzione che i recenti governi hanno dato al sostegno agli investimenti privati tramite vari incentivi (superammortamento, industria 4.0); occorre infatti domandarci quanto abbiano davvero sostenuto investimenti aggiuntivi o abbiano semplicemente sovvenzionato investimenti già decisi. E, soprattutto, quanto abbiano consentito il semplice ricambio di vecchi con nuovi impianti (in genere labour saving) e quanto invece abbiano favorito anche nuova e più qualificata occupazione.
Occorre in altre parole decidere se il nostro sistema produttivo debba progredire verso attività che richiedono lavoro più qualificato, più ricerca o se invece si debba continuare sulla via di un modello low cost che, a parole, diciamo di non volere, ma che nei fatti stiamo ancora sostenendo.

Se facciamo finta di credere che tutto sia tornato a funzionare perché l’occupazione è tornata a crescere (?) o, al contrario, che i problemi dell’occupazione sono ancora oggi non risolti per colpa del Jobs Act, finiamo col dare a quest’ultimo un ruolo che non ha e non può avere. Ci dimentichiamo, cioè, che sarebbe giunto il momento di occuparci seriamente di una politica industriale che punti ad accrescere e qualificare la domanda di lavoro; ciò richiede un serio rilancio degli investimenti non solo per introdurre macchine più moderne (che probabilmente sostituiranno lavoro), ma anche per allargare la base produttiva creando quindi anche nuovo lavoro.
Se l’obiettivo è questo, non è detto che il mercato da solo ce la possa fare (le imprese non hanno come loro obiettivo quello di creare occupazione), come mostra la stentata crescita degli investimenti privati dopo il crollo che vi è stato negli anni della Grande Recessione. È lo dello Stato che con le sue scelte deve forzare il sistema per far sì che i nuovi investimenti siano volti anche alla creazione di nuova occupazione contribuendovi anche direttamente attraverso il rilancio degli investimenti pubblici, troppo a lungo dimenticati.

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