Berlinguer alla camera

Il rivoluzionario “scarta di lato” ma quell'”idea” è ancora dentro

In un’epoca di trasformismi, di flessibilità e di pensieri deboli emoziona e un po’ commuove la risposta che Enrico Berlinguer diede, in un’intervista del 1983, a Giovanni Minoli che gli chiedeva la qualità personale a cui era più affezionato: “Quella di essere rimasto fedele agli ideali della mia gioventù”. Confermando in maniera sintetica quello che aveva già detto l’anno prima a un giornalista francese durante una Tribuna politica: “Sento in me, e non credo di fare della retorica, la stessa passione che ho avuto quando ho iniziato la mia milizia comunista nel 1943. Da questo punto di vista non mi è accaduto, e questa la considero forse la più grande fortuna della mia vita, di seguire quella famosa legge per cui si è rivoluzionari a 18 anni, a 20 anni e poi si diventa via via liberali, conservatori, reazionari. Io conservo i miei ideali di allora”.

Nel corso della sua vita Berlinguer non ha mai avuto paura di dichiararsi comunista. Eppure quanto era cambiata, da quel lontano esordio in tempo di guerra, la scena politica nazionale e internazionale, la cultura politica, il linguaggio politico. Quanta strada il movimento comunista italiano aveva compiuto, in modo sempre più autonomo e distante dal paese e dal partito guida. Quante tragedie e orrori avevano macchiato le gloriose bandiere rosse. Berlinguer, il maggiore protagonista italiano ed europeo di quel cammino, non rinnega. E lo stesso anno, conversando sul Manifesto con il giornalista da lui più stimato, Luigi Pintor, spiega: “La sinistra ha fatto bene a disfarsi dei vecchi miti, a riaffermare la sua piena laicità, ma non può vivere e vincere senza valori ideali, che sono poi quelli di cui il movimento operaio è portatore da sempre – pace, giustizia, eguaglianza, lavoro, sapere, solidarietà – ma che hanno bisogno di essere diversamente pensati e tradotti, perché si applicano a una realtà diversa”.

Penso anche a questo leggendo “Quell’idea che ci era sembrata così bella” (Aska 2016), in cui Tito Barbini, “rivoluzionario di professione” fino al momento in cui decise, zaino in spalla, di partire per un’altra vita, intraprende un viaggio nella sua esperienza esistenziale di militante comunista, dirigente del Pci, amministratore pubblico. Un figlio di povera gente che, avviato all’attività politica del Pci con la scuola di partito, come una “locomotiva” ben piantata nel suo percorso segnato, sceglie a un certo punto di “scartare di lato” come il famoso bufalo di De Gregori. La sua intima anabasi dolorosa richiede rispetto e, in un percorso che non ha un ordine cronologico ma solo la necessità di farsi, non risparmia nessun passaggio: l’Ungheria e la Polonia, i gulag e la Cambogia, il Muro e Sarajevo. E per quanto riguarda il partito la full immersion nella militanza, ma anche le battaglie interne, le contraddizioni brucianti, le vittorie e l’espulsione di quelli del Manifesto, la tradizione filosovietica e il ’68, la Russia e l’America.

Nella foto: Il libro di Tito Barbini “Quell’idea che ci era sembrata così bella”, edito da Askra

Que reste-t-il de nos amours? Que reste-t-il de ces beaux jours?”, cantava Charles Trenet negli anni ’40. Barbini elenca alcuni valori: “La legalità, l’onestà, l’uguaglianza e la giustizia. Essere dalla parte degli ultimi senza bisogno di credere in Dio”. Credo che il suo libro potrebbe concorrere per il record delle domande in esso contenute, per il numero di punti interrogativi proporzionati al numero delle pagine. Di fronte alle immagini più tragiche dell’album di famiglia comunista squadernato senza riserve, come in un intimo e personalissimo giorno del giudizio, Barbini si domanda: come abbiamo potuto non vedere o distogliere gli occhi? Ma pur condannando questa cecità non giunge all’abiura, a cui si nega ripetutamente: “Anch’io, avendo parteggiato per tante rivoluzioni, sono corresponsabile dei loro disastri e dei loro costi insopportabili. E’ una conclusione che può avere anche significato liberatorio, Però, sia ben chiaro, non è un’abiura. Cosa mi trattiene?…l’impressione che queste degenerazioni non appartengano all’idea iniziale. Non so come spiegarlo, ma non credo fino in fondo nell’innocenza dei vincitori. Intendo dei vincitori di oggi”. E ancora: “Non posso convincermi che l’unico modo di guadagnare credibilità sia quello di chiamarsi fuori del tutto da quella storia, dichiarando di “non essere mai stato comunista”!

Barbini sente ancora il morso della passione politica e questo lo porta a interrogarsi ancora e ancora, sempre in termini critici sulla sinistra di oggi e sul partito di oggi, il Pd, di cui è stato tra i promotori. Alla prima chiede “il coraggio di assumere su di sé l’eredità di tutto il movimento operaio italiano”, al secondo di superare la deriva di “consorterie in eterno conflitto interno per questioni di potere o di posizionamento rappresentativo” e di essere fedele al progetto per cui era nato, quello di “dar vita ad una grande sinistra plurale, che comprendeva al suo interno le diverse culture dei riformisti e dei progressisti, protagonista nella famiglia socialista europea, ponendo come obiettivo centrale la costruzione di una democrazia sovranazionale, fondata sui valori della dignità della persona, della solidarietà, dell’ecologia, della non violenza”.

L’impietoso scavare nel passato è la condizione per offrirsi in modo attivo, partecipe al futuro: “Se un altro futuro è possibile – conclude il libro – le radici sono nella nostra storia”. Mi piacerebbe avere l’occasione di scambiare con Tito qualche riflessione, magari passeggiando per le “rughe” della sua Cortona. Mi verrebbe, penso, la tentazione di sussurrargli, come fa l’anziana Filippa di Karen Blixen ad una esausta ma indomita Babette: “Eppure non è la fine! Sento che questa non è la fine”. Ma non so se ci riuscirei.

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