Bandiera Rossa

La costruzione della sinistra: visione, programma, strumenti

Se si pensa di costruire realmente un percorso che vada dalla definizione di una lista elettorale della sinistra unita (che parte ovviamente dal raccordare quello che c’è senza forzature indebite) alla vera e propria costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra (che ha bisogno necessariamente di un progressivo livello di omogeneizzazione), allora occorre stabilire alcuni punti in merito ad una “visione” politica generale (cosa che comprende un “programma”) e ad alcuni “strumenti” per rendere possibile nel migliore dei modi l’esito positivo del percorso.

Visione
Una visione è più di un programma. Anzi per definire davvero un programma, e soprattutto, per muovere le energie necessarie per vivificarlo nella realtà, serve necessariamente una visione comune.
Affinché la sinistra possa mettere in campo questa visione comune (che possa creare elementi di identità e di motivazione all’azione disinteressata di migliaia e migliaia di militanti) occorre un “recupero” di una tradizione, articolato però ad elementi di “discontinuità” e “novità”.
Il doveroso recupero di una tradizione del movimento operaio, socialista e comunista (ma anche di altre tradizioni di lotta per l’uguaglianza) ha al centro la convinzione della storicità del capitalismo, della sua nefasta influenza sulle formazioni sociali, della sua odierna tendenza alla distruzione irreversibile del pianeta. Quindi una visione di sinistra risorge (è così in tutto il mondo) se recupera, come primo passo, uno spirito concreto alla trasformazione sociale possibile, oltre il capitalismo, lo sfruttamento del lavoro e della natura, e le forme del suo metabolismo sociale. Con al centro il lavoro (l’economia nel senso della lotta delle classi popolari contro gli effettivi gruppi sociali che dirigono il capitale a livello mondiale) e l’ecologia (cioè il legame tra la salvezza del pianeta e la necessità di una produzione della ricchezza sostenibile e nell’interesse delle collettività). Con uno sguardo attento anche alla qualità dei rapporti umani: un passaggio reale da una identità sociale e individuale dominata dalla logica del consumo della merce ad una centrata sulla qualità della vita delle persone e dei loro rapporti reciproci, che può reggersi solo a partire da una sostanziale uguaglianza e libertà tra gli esseri umani (in primis di genere).
Ma occorre anche una discontinuità e (relativa) novità centrata sulla democrazia. Nella storia il processo di mimesi quasi assoluta tra le organizzazioni del movimento operaio e lo stato borghese, spesso autoritario, anche se definito da una democrazia formale, ha procurato una vittima eccellente: la democrazia sostanziale. E il riprodursi di conseguenza dentro alla sinistra di processi verticistici, autocentrati, antipartecipativi, in definitiva, autoritari. Allontanando così masse di lavoratori e di cittadini dalla partecipazione politica; agevolando così una omologazione distruttiva della sinistra, anche nello “stile”, alla forma della politica dominante: infine riducendo una sinistra omologata siffatta ad un residuo minoritario di un “mondo politico” sempre più parziale e separato, privilegiato e strumento del potere dei pochi sui molti. Da qui, se si prosegue così, inesorabile sarà la prosecuzione delle crisi e dei collassi della sinistra.
Serve la novità, non come scimmiottatura della innovazione capitalistica (“nuovismo”, “giovanilismo”, “tecnicalismo neutrale”, culto della rete e delle primarie, ecc..), ma come fedeltà estrema e rigorosa alla democrazia e alla scelta di campo per le classi popolari.
Significa fare la fatica della organizzazione, come campo politico centrale e prioritario, della cura della partecipazione effettiva dei militanti e degli aderenti alla presa di decisione politica e alla costruzione delle strutture dirette e rappresentative del soggetto politico a cui si partecipa.
Significa che militanti e dirigenti politici non solo prendono parte per, ma fanno parte delle classi popolari che vogliono rappresentare, trasformando i privilegi di cui magari godono in opportunità per tutti e orientando il loro lavoro al servizio della crescita del soggetto politico e del suo ruolo sociale. Esattamente il contrario della casta che i “politici” oggi sono e vengono, giustamente, così visti dalla stragrande maggioranza delle persone.
Una visione comune anticapitalistica all’altezza delle sfide e delle contraddizioni del XXI secolo può, anzi deve, convivere con la consapevolezza della difficilissima definizione dei passaggi politici complessi della trasformazione sociale: non possiamo più pietrificarci nella dicotomia riforma/rivoluzione o annichilirci nella misurazione infinita di chi è più o meno coerente tra orizzonti socialisti, che mai si raggiungono, e pratiche quotidiane, alquanto pragmatiche, di governo dell’esistente.
Forse oggi il quadro corretto in cui orientarci è quello che Erin Wright chiama “erosione del capitalismo”, o quello che potremmo definire come il campo dei sistemi della transizione, cioè della relazione tra le diverse politiche programmatiche possibili in una data condizione e il loro effettivo ruolo nello stimolare un progressivo avanzamento della possibilità di “erodere”, appunto, le strutture fondamentali del capitalismo, facendo emergere già in questo processo le strutture nuove di un modello sociale e politico alternativo.

Programma
Da questa visione discende un programma. In primis liberiamoci delle gabbie (lessicali e concettuali) dell’avversario: piantiamola anche noi di usare la contrapposizione tra sinistra di governo e sinistra di identità (e testimonianza).
Non c’è sinistra di governo efficace (cioè non disposta immediatamente a vendersi per un piatto di lenticchie, ad esempio) senza una forte identità; si è una sinistra di pura testimonianza se non si è utili ai lavoratori e a tutti gli oppressi qui ed ora, quindi nella misura del concreto possibile. Se ciò non si sa o si vuole fare la sinistra non serve a nulla e, necessariamente, si estingue. Quindi il tema del governo è centrale: inteso come disposizione necessaria alla realizzazione di un progetto di governo che sa e intende affrontare le condizioni oggettive presenti senza rimandi illusori al futuro. Ma questo non significa affatto che serva sempre sedere per forza e comunque dentro ad una compagine effettiva di governo, occupando ministeri e quant’altro: questo dipende dalla pragmatica contingente, non da scelte metafisiche. Il PCI governava anche stando all’opposizione. Così come non si misura la coerenza anticapitalistica stando per scelta semi-religiosa sempre e comunque all’opposizione, usando il seggio istituzionale solo e sempre come voce di denuncia del popolo, risultando così stridula e insopportabile agli stessi soggetti per cui si pretende di parlare.
Per cui il primo passo per un programma è definire cosa oggi, nella situazione data qui ed ora, una sinistra pensa si possa realizzare nell’interesse dei molti contro quello dei pochi (per parafrasare la sinistra laburista di governo di Corbyn).
In primis in politica economica: la ripresa di un ruolo forte del pubblico (non solo nella regolazione e ancor meno nella cosiddetta governance) significa politiche economiche che guardino agli interessi del Paese e dei suoi lavoratori, dunque contrastino le politiche economiche di stampo liberista fatte proprie dai governi susseguitesi in Italia in questi venticinque anni compresi quelli di centro-sinistra. Se queste politiche hanno dimostrato la loro inefficacia contro la crisi economica, sono invece state di un’efficacia assoluta di classe, arricchendo i pochi e impoverendo i molti, spesso al limite della sopravvivenza, facendo aumentare ogni disuguaglianza, aumentando il tasso di distruzione del Paese e delle sue risorse (fisiche e umane). Quindi via il Jobs Act, via la “Buona Scuola”, via la “riformaFornero. Ma al via invece programmi di risanamento del territorio, investimenti pubblici nella ricerca e formazione, una nuova legislazione a protezione del lavoro buono e di qualità, una espansione egualitaria del welfare, una direzione pubblica dei processi di innovazione, in modo da orientarli al miglioramento sociale e non all’aumento della disoccupazione (cosa ovvia se rimangono determinati dalla logica del capitale). Con quali soldi? Riforma fiscale vera e progressiva, patrimoniale, lotta all’evasione; abolizione del fiscal compact e ritorno ai parametri di Maastricht; esclusione dal computo dei deficit degli investimenti in economia, nei servizi, nella formazione, nel risanamento del territorio (mi pare che sia il documento “Una nuova proposta” che quello denominato “social compact” possano essere la base di un programma economico praticabile).
I diritti sociali non vengono prima dei diritti civili: e continuare a vedere le due cose come se fossero realizzabili indipendentemente l’una dall’altra le danneggia entrambe. Senza diritti sociali molto forti assicurati per tutti (a partire ovviamente da quelli relativi al lavoro e alla salute pubblica), necessariamente essi varranno per pochi, se li potranno permettere solo i ricchi. Se sei gay e vuoi adottare un bimbo (oggi in Italia non si può), devi andare all’estero, cosa che ti esclude se sei povero, poiché le istituzioni cattoliche impongono in Italia la loro verità etica.
Una sinistra seria difende il diritto di migranti e profughi ad essere accolti e integrati, insieme difende il diritto di tutti a non vivere in quartieri degradati. Senza una sinistra che renda effettivo il diritto alla casa è inevitabile una “guerra tra i poveri” etnicamente connotata nelle periferie delle nostre metropoli.

Strumenti
La politica è il potere di gestire le cose secondo una direzione scelta. Una visione e un programma per farlo sono cruciali, ma non basta. Una volta si diceva: “manca il partito”. Oggi questo vale più che mai. E’ cosa buona e giusta fare una critica radicale alla forma partito novecentesca, ma questa critica non può sciogliere il partito nell’acido del puro movimento d’opinione o della compagine elettorale.
Ciò soprattutto non vale dal lato delle classi popolari. Non a caso chi ha pensato di trasformare la sinistra in un partito “leggero e liquido” ha perso il partito e, infine, la rappresentanza. Non a caso: quello che deve fare la sinistra non è solo creazione di opinione o partecipazione sulla rete, ancor meno l’evento socio-mediatico simbolo di un contenuto (primarie, convention, etc..), la cui sorte è di consumarsi subitaneamente. Servono al contrario e prima di tutto anche l’organizzazione e la relazione quotidiana con le persone del popolo: servono luoghi fisici per incontri veri e permanenti, servono l’inchiesta sociale co-partecipata e la relazione continua tra formazione politica, militanti, organizzazioni sociali, tra cui in primo luogo il sindacato.
Per fare questo la sinistra deve avere un corpo organizzato di militanti, tra cui funzionari, cioè militanti che lavorano per il partito, scelti per le loro qualità e capacità (non per la fedeltà al dirigente più o meno importante), in diretto contatto con il territorio (non tutti a Roma al gruppo parlamentare); servono organizzazioni che dispongano di risorse adeguate ad agire e a portare a compimento le proprie attività. Gli eletti nelle istituzioni devono disporre di retribuzioni certo decenti, ma non super-ricche. Devono occupare il seggio per non più di due mandati (salvo eccezioni motivate). Gli eletti nelle istituzioni (a partire ovviamente dal gruppo parlamentare) devono essere a disposizione del partito e del suo ruolo politico e sociale effettivo. Non serve granché un lavoro istituzionale chiuso nei palazzi; non servono parlamentari che fanno infinite interpellanze e che non sono quindi presenti sul territorio e nei punti di crisi e di tensioni sociali, che non svolgano lavoro di inchiesta, che sappiano ascoltare la gente del popolo.
La composizione degli eletti deve rispettare la parità di genere. E così tutti gli organismi direttivi del partito. Inoltre la direzione del partito e il suo esecutivo devono essere composti principalmente da militanti non eletti nelle istituzioni. Le loro discussioni devono risultare trasparenti alla militanza e così i loro processi decisionali.
La sinistra deve liberarsi dalla metafisica autoritaria e irrazionale del leader. I leader sono necessari in politica: ma devono essere veri, cioè non il risultato di lotte al vertice di fazione, invece riconosciuti come tali dalla militanza dei partiti, dai loro simpatizzanti e dai loro elettorati. Parimenti è diventato insopportabile, in un pianeta che registra una straordinaria e multiforme insorgenza femminile, che la leadership sia quasi tutta maschile e che il leader sia obbligatoriamente un uomo. Ci sono ormai partiti di sinistra in Europa e nel mondo caratterizzati da una doppia leadership, una donna e un uomo: sarà bene imitarli.
Occorrerà, infine, procedere a liste elettorali che diano spazio anche ai territori, diano anche spazio a giovani e a figure direttamente appartenenti al mondo del lavoro.
Onde evitare alterazioni dannose del profilo delle liste occorrerà anche disporre di un comitato di garanti, nessuno dei quali candidato e incaricato del pieno rispetto dei criteri di selezione.

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