Istat

La discussione che segue (sui dati ISTAT)

La discussione che segue l’uscita mensile dei dati sul mercato del lavoro rischia di diventare stucchevole, o se vogliamo talmente prevedibile che potremmo già oggi scrivere i commenti relativi alle prossime uscite, con tanto di firma.
Tra i tanti dati che ISTAT fornisce è sempre possibile trovarne qualcuno che mostra segnali di miglioramento (e allora inevitabilmente il merito è del governo attuale e soprattutto dei precedenti che con le riforme hanno avviato il paese verso la ripresa); così come se ne possono trovare altri che mostrano chiari segnali di peggioramento (e allora la colpa è del governo attuale e soprattutto dei precedenti che non hanno fatto le cose che avrebbero dovuto fare).
Tutto ciò svilisce la complessità che sta vivendo il mondo del lavoro. Il lavoro, dopo le tante leggi che hanno modificato le regole di funzionamento del mercato, non può restringersi a qualche indicatore parziale relativo a un mese o a un segmento di occupazione (maschi, femmine; giovani, anziani).
Il lavoro è posto di lavoro, ma anche orario di lavoro; il lavoro è retribuzione, ma anche sicurezza di poterla mantenere; il lavoro è possibilità di scommettere sul futuro, ma anche sicurezza dell’ambiente in cui si esercita l’attività lavorativa.
Si risponderà che l’affermazione “la realtà è assai più complessa” è spesso un modo per non affrontare i problemi; in questo caso però tale complessità può essere più facilmente intuita se usciamo da osservazioni così strettamente congiunturali da impedirci di vedere il punto in cui ci troviamo e soprattutto la direzione che stiamo prendendo.

L’aumento di occupazione che abbiamo osservato in questi anni è esattamente analogo per dimensione all’aumento del PIL e questo sta oramai accadendo da molto tempo, tanto da fare dell’Italia l’unico paese europeo a seguire questa logica.
Abbiamo inventato un marchingegno che consente al paese di crescere e creare occupazione (poco in ogni caso) senza aumentare la produttività? Perché se PIL e occupazione aumentano nella stessa misura ciò significa che la produttività è ferma.
Osservando i dati europei la relazione tra le tre grandezze (produttività, PIL e occupazione) è in effetti assai più complessa: l’aumento della produttività è condizione necessaria per accrescere la competitività, la quale consente la crescita del PIL che, quando supera quello della produttività (e dovrebbe in genere avvenire), crea spazi per creare nuova occupazione.
Per fare un esempio in Germania tra il 2014 ed il 2016 la produttività è aumentata dell’1,4%; ciò ha favorito un aumento del PIL del 3,7% con ricadute sull’occupazione del 2,3% . Ciò vale in media per i paesi dell’Euro Area a 12: ovunque la produttività aumenta e consente aumenti più consistenti del PIL lasciando quindi spazio per nuova occupazione.
Una sola eccezione: l’Italia. Nel biennio 2105-16 la produttività è rimasta ferma per cui l’aumento del PIL che vi è stato (nei due anni +1.9%), si è tradotto integralmente in aumento di occupati.

Se ci limitassimo ad uno sguardo di breve periodo, dovremmo considerare tutto questo un successo; ciò vorrebbe dire aderire all’idea che l’aumento della produttività è un ostacolo alla creazione di posti di lavoro.
Pare evidente che questa strana evoluzione nasconda in realtà qualche problema che ha non pochi riflessi sulla complessità di cui si parlava sopra. Perché c’è sempre una domanda di fondo cui dovremmo saper rispondere: come si fa a crescere a lungo se la produttività è ferma?
Al momento vedo una sola possibile risposta: sfruttando maggiormente il lavoro. I segni sono già evidenti – lo abbiamo già ripetuto molte volte – le retribuzioni non aumentano così come si riduce l’orario medio di lavoro (non per scelta del lavoratore però), aumentano gli infortuni, si rimpingua la classe degli working poors.

Qui non si tratta di essere “gufi” cercando il negativo al di sotto di dati che appaiono positivi (l’aumento dell’occupazione), ma piuttosto di essere preoccupati perché dietro l’esaltazione del numero c’è l’idea che occorre proseguire nelle scelte di politica economica adottate in questi anni (la riforme), che da sole consentiranno al paese di uscire dalla crisi.
In realtà se vogliamo che i dati dell’occupazione tornino davvero ad esprimere una situazione in ripresa occorre sostenere con grande forza gli investimenti per innovare il nostro sistema ed accrescerne la produttività (ed è possibile che proprio per questi motivi tali investimenti non creino nuova occupazione, si veda tutta la discussione su industria 4.0), ma occorrono anche nuovi investimenti per accrescere una base produttiva che si è eccessivamente contratta in questi anni (e questi creeranno nuova occupazione) oltre a quelli pubblici necessari per il buon funzionamento del sistema.
Nuova occupazione senza nuovi investimenti rischia di essere un messaggio povero e soprattutto non sostenibile.

Commenti