Le radici del socialismo

La radici della nuova sinistra fondate sull’anti-establishment

Vi sono solo due movimenti apprezzabili sullo scenario della politica internazionale.

Il primo riguarda l’insorgere di una nuova destra dai colori decisamente bruni, venata di razzismo, sospinta dall’accentuarsi dei processi di globalizzazione e dal perdurare degli effetti sociali della crisi. Questa nuova destra si nutre della paura degli autoctoni (vecchi e nuovi perché non ne sono immuni anche le seconde generazioni in immigrati ormai integrati nei paesi in cui i loro padri sono immigrati) di perdere posizioni di privilegio, o anche semplicemente di relativa sicurezza, dall’arrivo di nuovi flussi migratori consistenti. Temono di veder contaminata o messa in discussione una identità – che può essere etnica o nazionale, sociale o culturale – che hanno faticosamente conquistato o che, più propriamente, non erano consapevoli di avere fin quando non hanno intravisto una nuova diversità nei volti dei nuovi immigrati. Per capirsi, non hanno la benché minima idea di cosa siano i valori democratici di cui pure si ergono a paladini, né di cosa siano le radici cristiane dell’Europa tanto che molti di loro non lo sono affatto, ma per contrasto ai nuovi arrivati dichiarano di appartenervi. Più in generale è una nuova destra che fa perno su principi egoistici e su una visione chiusa del mondo (in questo senso antiglobalizzazione), cioè sul rischio di dover dividere con un numero crescente di “stranieri” le risorse (economiche, lavorative, sociali, ambientali, ecc.) decrescenti di cui dispongono. Questa nuova destra ha annichilito la destra tradizionale, liberale e liberista e la sta marginalizzando un po’ ovunque, dagli Stati Uniti (dove il GOP sarà comunque spazzato via dal ciclone Trump) alla Francia (dove solo il patto di desistenza fra gollisti e socialisti ha permesso, temporaneamente, di arginare alle elezioni regionali dello scorso anno l’impetuosa avanzata della Le Pen), dalla Danimarca all’Austria, dalla Russia all’Inghilterra. E’ una nuova forza che sta crescendo anche in Germania e in molti altri paesi, occidentali e non.

Il secondo movimento riguarda il campo della sinistra. Anche qui registriamo un insorgere di movimenti e personalità, al di fuori della sinistra tradizionale di stampo socialdemocratico, anch’essi rappresentando una risposta nuova alle problematiche della globalizzazione e aperte dalla lunga crisi economico-sociale in cui è immerso il pianeta. E’ un movimento eterogeneo, che non ha consapevolezza (e neppure si pone il problema) di una direzione unitaria, che è spinto o almeno si poggia su una mobilitazione di base, di individui e gruppi che si collocano al di fuori delle tradizionali organizzazioni dei partiti e dei sindacati della sinistra. Pur tuttavia questo movimento conquista larghi consensi anche fra i militanti e iscritti (o ex militanti e iscritti) delle formazioni tradizionali della sinistra socialdemocratica o progressista, da un lato perché l’adesione a questa mobilitazione non richiede una adesione ideologica o totalizzante come avveniva nei decenni passati per i partiti della sinistra tradizionale e dall’altro perché questi ultimi non appaiono più credibili o comunque in grado di rispondere coerentemente ai nuovi bisogni sociali e ideologici di una sinistra moderna.

Infatti, questa mi pare la cosa più significativa: la sinistra socialdemocratica e le sue articolazioni politiche appaiono (e, in verità, sono) sempre più parte dell’establishment, sempre più parte integrante di un sistema politico e di potere contro cui si mobilita questo movimento, e quindi sempre meno in grado di portare avanti istanze di riforma e cambiamento di quel sistema. La socialdemocrazia è, un po’ ovunque, a partire dalla Germania, invischiata di governi con i partiti di centro-destra; spesso cerca di arginare l’avanzata della nuova destra “populista” competendo sul suo stesso terreno (come in Danimarca, in Austria o, nel recente passato, in Inghilterra), votandosi così inevitabilmente alla marginalità e alla sconfitta. Ad essa non si guarda più con la speranza di un cambiamento significativo dello status quo, ma al massimo come strumento attraverso il quale essere cooptati a beneficiare delle ricadute positive di quello status quo. Così essa si omologa alle forze di centro-destra o comunque dell’establishment, perdendo consensi e ruolo. La spinta al cambiamento deve, così, trovare altri alvei in cui confluire. E’ interessante notare come questo movimento della nuova sinistra abbia interpreti assai diversi (movimenti, individui, partiti), modalità di organizzazione diversificate (istituzionali e non, partiti politici o movimenti), radicamento sociale e proposte altrettanto variegate, ma tutti rispondono a domande di politica nuove derivanti dalle contraddizioni che la globalizzazione e la crisi producono.

Così abbiamo movimenti di cambiamento radicale all’interno dei partiti tradizionali della sinistra socialdemocratica o progressista che, da posizioni solitamente minoritarie, ne prendono o insidiano la leadership: è il caso di Corbyn con il Labour inglese, di Sanders con il Democratic Party in USA e di Justin Trudeau in Canada, primo Ministro e leader del Partito Liberale. Nei primi due casi abbiamo di fronte leader anziani che assumono istanze radicali, che discutono i fondamenti stessi della società matura di riferimento (significativo il dibattito sulla riformabilità del capitalismo) e che scalano un partito ormai stabilmente insediato nell’establishment. Nel caso di Trudeau siamo in un ambito di un partito certamente non socialdemocratico ma a più riprese considerato la componente progressista dello schieramento canadese che rompe la tradizione di equilibrio fra la componente più sociale e quella più liberista, cogliendo le nuove problematiche che la globalizzazione pone ad un paese che vuole aumentare il grado di autonomia e specificità all’interno dell’asse atlantico. In altri casi, come Sanchez con il PSOE spagnolo, la critica interna è meno radicale, ma la direzione è sempre quella di recuperare credibilità a sinistra.

Poi vi sono i casi di movimenti esterni ai partiti della sinistra socialdemocratica che assumono la guida del campo della sinistra essendo i partiti veramente troppo compromessi con il potere: Tsipras in Grecia che fonda un nuovo partito perché il Pasok era certamente corresponsabile del tracollo economico del paese, Podemos in Spagna che raccoglie la spinta degli Indignados del 2011 e diventa il primo partito. Forse vedremo qualcosa del genere in Francia, se il movimento contro la riforma del mercato del lavoro voluta dal presidente e dal governo socialisti crescerà come sta avvenendo in questi giorni e si porrà il problema di un salto di qualità politico. Poi vi è il caso recente di Van der Bellen, l’anziano leader ecologista austriaco che ha fermato l’avanzata del partito di ultra destra FPÖ: in sé l’Austria è un paese addirittura meno importante dell’Italia sullo scacchiere internazionale, ma la sua affermazione è emblematica anche di una incapacità dei socialdemocratici di intercettare le richieste di cambiamento provenienti dalla società austriaca che, evidentemente, non hanno trovato riscontro nella politica dello SPÖ, la socialdemocrazia austriaca. In effetti Werner Faymann, Bundespräsident della Repubblica Federale e candidato socialdemocratico arrivato quarto al primo turno con l’11% dei consensi, ha rappresentato una linea politica omologata al sistema, morbida con il FPÖ (tanto che nel Burgenland i socialisti governano insieme alla formazione che fu di Haider, pur in presenza di un deliberato del congresso che vietava coalizioni con il FPÖ) e che ha evitato l’endorsment pubblico per il candidato verde Van der Bellen al secondo turno (salvo la dichiarazione tardiva a soli tre giorni dal voto del nuovo leader socialdemocratico Christian Kern).

Anche la piccola ma simbolicamente importante vicenda austriaca, sembra dimostrare che – almeno per i prossimi anni – la dinamica politica avrà per protagonisti i due movimenti di cui parlavo all’inizio. Sbaglieremmo a definirli, come pure qualcuno ha fatto, due opposti populismi sia per la vaghezza e ambiguità del concetto, sia al contrario per la sua determinatezza storica, che lo rendono difficilmente adeguabile ai nostri tempi. Ne ha scritto in modo convincente di recente Nadia Urbinati, in alcuni saggi e libri. Mi limito a citare Democrazia sfigurata: il popolo fra opinione e libertà (2014) e Democrazia in diretta: le nuove sfide della rappresentanza (2013), ma anche il botta e risposta con John McCormick sulle pagine di Micromega nel 2014. Potremo in altra sede tornare su questo dibattito, che è tutt’altro che accademico.e che scalano un partito ormai stabilmente insediato nell’establishment

 

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