Attentato Reina

La Turchia e i fragili equilibri del Medioriente

Negli ultimi mesi diversi attentati hanno sconvolto la Turchia. A realizzarli sono stati gruppi di matrice differente, ma era apparso subito chiaro che dietro la strage costata la vita a 39 persone, tra cui 28 stranieri, nella discoteca Reina di Istanbul c’era la mano dello Stato islamico. Una rivendicazione per la prima volta scritta anche in turco ha lanciato il suo anatema contro la Turchia: «Continuano le operazioni benedette che l’Is sta conducendo contro il protettore della croce, la Turchia”.

Per comprendere gli equilibri dell’infinito conflitto mediorientale dobbiamo, però, conoscere le alleanze religiose e politiche più o meno dichiarate apertamente. Per semplificare, possiamo dividere il Medioriente in due territori virtuali: la “mezzaluna sunnita” composta da Qatar, Turchia e Arabia Saudita, sostenuta fino alla presidenza Obama da Stati Uniti e Israele e la “mezzaluna sciita” composta dall’Iran, dall’Iraq del premier sciita Haider al Abadi e dalla Siria di Bashar al-Assad ma anche dal partito libanese Hezbollah, sostenuti dalla Russia e tutti uniti contro i terroristi Isis.

Elemento fuori dal coro, perché uno stato teoricamente laico e facente parte della Nato e cuscinetto dell’Unione europea, è stata la Turchia. Costretta, per questioni di geopolitica, all’ambiguità, ha dovuto dialogare con tutti i suoi infuocati confini: la Siria sciita e quella sunnita, i terroristi controllati dall’Isis e Al-Qaeda, la Russia e le repubbliche filorusse, i gruppi curdi e armeni che rivendicano sovranità e l’Unione Europea e gli Stati Uniti come elementi fondanti della Nato di cui fanno parte.

Per cercare di sopravvivere in questo ginepraio, ma anche nel tentativo di seguire le mire di potere del suo presidente Erdoğan, la Turchia si è schierata contro il regime siriano di Bashar al Assad e lo ha combattuto, alleandosi con i gruppi di ribelli che agiscono nel nord della Siria. Ha finanziato e armato sia l’Esercito Libero Siriano, considerato tra i meno radicali, sia Ahrar al Sham, vicino ad Al-Qaida. Ma nel tentativo di combattere i curdi siriani ha anche favorito lo Stato islamico permettendo il passaggio di armi e foreign fighters attraverso il confine turco-siriano soprannominato “autostrada del jihad”.

Ma nel 2016 alcuni avvenimenti hanno però cambiato gli equilibri in gioco. Dopo alcuni scontri militari fra Turchia e Russia sono stati gli attentati sul suolo turco a dirigere la scena. Alcuni di essi non sono stati rivendicati dai curdi del PKK ma dallo Stato Islamico. Nel luglio scorso, poi, il tentato colpo di stato ha prodotto repressioni ed arresti sia fra gli attivisti politici sia tra i funzionari amministrativi ma anche docenti universitari e magistrati che hanno suscitato forti critiche dai paesi occidentali. Infine, l’assassino dell’ambasciatore russo ad Ankara Andrej Karlov il 19 dicembre scorso ha dato la spallata definitiva.

Quindi, gli attentati in patria di matrice jihadista sunnita salafita, il rafforzamento dei curdi in Siria, le distanze crescenti con l’Occidente, ma soprattutto l’aumento progressivo delle forze russe nell’area e di tutto lo schieramento sciita, Assad e Hezbollah compresi, ha costretto il presidente turco a cambiare rotta e strategia. Contraddicendo le forze religiose interne sunnite e facendo forza sulla propria costituzione laica, la Turchia ha cercato, quindi, il ravvicinamento a Putin per portare il proprio Paese nell’orbita di influenza russa come mai era successo prima. La Turchia è stata accolta dalla mezzaluna sciita e nei negoziati fra Turchia, Russia e Iran con il risultato della caduta di Aleppo e l’ingresso dell’esercito turco in Siria, per impedire l’unificazione del Rojava curdo.

I rapporti tra Turchia e Stato Islamico sunnita sono, a questo punto, completamente cambiati. Da una reciproca tolleranza si è passati ad un’aperta ostilità, come ha dimostrato l’attentato di capodanno. Ma alla resa dei conti potrebbero essere anche le forze interne turche e, quindi, l’elettorato del presidente Erdoğan stretto fra la maggioranza sunnita che mal vede un coinvolgimento del governo in alleanze sciite e i gruppi indipendentisti curdi sempre più forti come consenso internazionale.

Nel frattempo tutti aspettano il 20 gennaio quando si insedierà il nuovo Presidente americano Donald Trump, nuovo possibile simpatizzante della mezzaluna sciita. Sul suo tavolo ci saranno i rapporti con Putin, gli interessi delle multinazionali petrolifere ed energetiche, la questione israelo-palestinese, il nucleare iraniano, lo scisma dello Yemen e, naturalmente, le guerre civili in Libia e Siria. Il tutto Cina permettendo. Personaggio assolutamente imprevedibile è chiamato ad un compito non facile e molti sono i dubbi che possa avere le competenze per gestire al meglio una situazione così difficile e complessa. In ogni caso, nel male o nel bene, in onestà o malafede, avrà in mano il pennello per ridisegnare un nuovo Medioriente.

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