Sturgeon

L’Argine mondo: guerra nei Tory e nel Labour dopo Brexit

MASSA E POTERE. DA SPONDA A SPONDA.

È guerra nel Regno Unito, dopo la Brexit (The Guardian). Dentro i Tory, per la leadership, e dentro il Labour, contro Jeremy Corbyn (e per la leadership).
Nei Tory, Boris Johnson, candidatosi a leader, si è ritirato oggi pomeriggio dalla corsa dopo che Michael Gove, molto vicino a lui durante la campagna per il Leave, ha deciso, a sorpresa, di correre per lo stesso ruolo, in una mossa che molti non hanno esitato a definire una pugnalata alle spalle. Altra candidata di spicco è Theresa May.
I parlamentari laburisti, intanto, dopo avere sfiduciato Corbyn da leader del Labour, fanno pressioni affinché questo si dimetta. Corbyn è in una situazione difficile: ha l’appoggio della base, appoggio sempre più crescente rispetto al congresso dell’anno scorso, ma non ha mai avuto l’appoggio del proprio partito parlamentare, che dopo la perdita del Remain hanno deciso di fargli guerra aperta.
Si legge in questo post, che analizza attentamente il regolamento congressuale del Labour:

Il concetto chiave dello scontro tra Jeremy Corbyn e il gruppo parlamentare del The Labour Party è che se si dimette smette immediatamente di essere il leader del Partito e scatta l’elezione aperta del nuovo leader: tutti devono trovare le firme di almeno il 15% del gruppo parlamentare (Corbyn probabilmente non ci arriverebbe) per potersi candidare alle primarie.
Se non si dimette, invece, bastano le firme di almeno il 20% del gruppo parlamentare a favore di un candidato alternativo prima della convention annuale per far scattare le primarie tra il leader uscente e lo sfidante.
Così Corbyn sarebbe candidato di diritto, rimarrebbe in carica per tutto il processo e li costringerebbe a trovare fin da subito un candidato su cui unirsi. Inoltre costringerebbe i deputati che lo vogliono far fuori a mettere nero su bianco la propria firma.
Questo perché Corbyn ha una possibilità realistica di rivincere le primarie, con una conferma ancora maggiore della propria leadership e il gruppo parlamentare non vuole correre questo rischio. Tutto il resto è gioco delle parti.

Ieri, Nicola Sturgeon, primo ministro scozzese e leader del partito nazionalista e socialdemocratico SNP, si trovava a Bruxelles per discutere della situazione della Scozia dopo la Brexit. La Scozia, fortemente europeista, ha votato per restare e la Sturgeon si dice pronta a convocare un secondo referendum per uscire dal Regno Unito e cercare di rientrare così in Europa come paese indipendente. Il primo ministro scozzese ha trovato comprensione fra i rappresentanti europei, ma anche la rigida opposizione di Spagna (Mariano Rajoy) e Francia (François Hollande) (Politico)

In Spagna i sondaggi avevano sbagliato, e così gli exit poll. Certo, alle elezioni di domenica il PP si è confermato primo, ma Unidos Podemos (il partito frutto dell’unione fra Izquierda Unida e Podemos) arriva terzo e perde più di un milioni di voti rispetto alle elezioni del 20 dicembre. Il PSOE, che a sua volta subisce una perdita di voti, si conferma secondo. Nessun sorpasso, quindi, del partito di Pablo Iglesias sul partito di Pedro Sánchez, ma questo rimane comunque il peggior risultato di sempre per i socialisti. Adesso la grande domanda è: cosa fare con Rajoy, che ha deciso di accettare l’investitura del Re per formare un governo? Difficile che si affermi l’intenzione di fare un governo di larghe intese con il PP, i socialisti e il loro segretario hanno da sempre scartato l’ipotesi: sarebbe come tradire i propri elettori, sarebbe come alterare il proprio DNA (“Se Rajoy vuole parlare, lo faccia con quelli che gli sono affini, quelli della destra nazionalista“, ha affermato recentemente il portavoce socialista). Il dibattito più acceso è quindi sull’opportunità di lasciare Rajoy formare un governo (astenendosi dal votare contro) e andare all’opposizione o se votare contro. Permettere a Rajoy di formare il Governo e andare all’opposizione permettere, secondo alcuni, di far uscire la Spagna dalla paralisi istituzionale che va avanti da sette mesi e utilizzare questi anni, da passare ancora in minoranza, per ricostituire la propria identità e riallacciare i rapporti con il proprio elettorato, ormai sempre più distante. La posizione definitiva, però, si deciderà il 9 luglio, durante il comitato federale convocato dalla direzione del partito (El País)

DA ORIENTE A OCCIDENTE. GUERRA ED ECONOMIA.

Turchia. Seguendo la pista dell’ISIS, sono state arrestate 13 persone per l’attentato all’aeroporto di Istanbul di due giorni fa. Intanto il numero delle vittime è salito a 43 e sono più di 200 i feriti. Come scrive il New York Times nella sua edizione cartacea, l’attentato è un attacco alle aspirazioni globali della Turchia, ed è successo esattamente un giorno dopo che la Turchia, sempre più isolata negli ultimi anni, ha fatto importanti passi avanti per riallacciare i rapporti con Russia e Israele. E quale obiettivo migliore di un aeroporto, simbolo delle aspirazioni internazionali di un paese?

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