Mariano Paolozzi

Lavorare meno, lavorare tutti: una possibile utopia?

Il tema della fine del lavoro, la cosiddetta nojob society legata allo sviluppo tecnologico e alla robotica, è stato intuito già nei lontani anni Trenta dall’economista britannico John Keynes, il quale ne tratteggiò le enormi opportunità dal punto di vista della liberazione dalla terribile condanna biblica. Senza rinnovare la polemica sull’interpretazione di Marx, se avesse inteso liberazione dal o del lavoro, negli anni ’90 il tema è tornato al centro di una riflessione in chiaro-scuro soprattutto ad opera di Jeremy Rifkin, che ne mise in risalto rischi e opportunità, provando a tratteggiare i contorni del problema e le possibili misure che esso invocava.

La globalizzazione del mercato del lavoro ha sollevato altre emergenze e la tematica è stata in parte accantonata per ritornare centrale negli ultimi tempi ed assumere i connotati di una minaccia che incombe sulla dignità esistenziale di milioni e milioni di uomini e donne a rischio di esclusione sociale ed umana. Non più mera ipotesi fantastica, la robotizzazione avanza implacabile, a tappe forzate, desertificando le fabbriche dal lavoro umano e conferendo loro un aspetto surreale e fantascientifico.
La politica non è riuscita a dare risposte efficaci al nuovo fenomeno rivoluzionario, prigioniera del pensiero unico, di una cultura che, attardata a sognare scenari che ormai appartengono ad un passato che non ritornerà, è incapace di leggere il presente. Gli incentivi fiscali, la contrattazione decentrata, la flessibilità dell’orario lavorativo concessi alle aziende per invogliarle a nuove assunzioni, non fermano il dilagare della disoccupazione e mortificano la qualità della occupazione, precarizzandola e privandola dei diritti e delle garanzie. Per la prima volta rispetto a quanto è sempre avvenuto in passato, di fronte ad una minaccia duplice, il progresso tecnologico e la crisi economica, l’orario lavorativo aumenta invece di diminuire, così come pure il carico di lavoro per ciascun dipendente; per la prima volta aumentano le opportunità contrattuali che indeboliscono i diritti del lavoro e perde terreno il valore della contrattazione.

Cosa fare, allora? E’ necessaria, innanzitutto, rivoluzionare in maniera quasi totale il paradigma col quale si guarda alla realtà. La crisi non è solo crisi congiunturale: siamo in presenza di una nuova rivoluzione industriale, nella quale la produzione e il lavoro, l’occupazione e la produttività non camminano più di pari passo. Esattamente come nelle civiltà antiche, nelle quali il lavoro era per gran parte affidato agli schiavi, oggi la ricchezza è prodotta dalle macchine. La concezione classica del lavoro va, dunque, rivoluzionata e inserita in una prospettiva che ha a che fare con l’inclusione sociale e con la realizzazione individuale. E ciò che è urgente fare è redistribuire un lavoro destinato a diventare sempre più raro.

Una simile prospettiva non può che non articolarsi attraverso un sistema complesso ed integrato di interventi e di attori, in una logica che abbracci i lavoratori, i datori di lavoro, lo Stato e calibri l’apporto che ciascun soggetto è tenuto a offrire e i vantaggi che ne può ricavare.
Vale la pena di procedere schematicamente:

Per garantire un aumento significativo dell’occupazione è necessaria una diminuzione molto sensibile dell’orario lavorativo. Ciò comporta una riduzione del salario. In parte compensata da una serie di risparmi: trasporti, abiti, usura fisica, spese sanitarie ed altro ancora. In parte compensata da forme di partecipazione agli utili. In parte, ancora, compensabile da una riduzione del peso fiscale che lo Stato potrebbe sopportare in virtù di una diminuzione dei costi, sanitari e ambientali ad esempio, e delle maggiori entrate che un aumento generalizzato degli occupati sarebbe in grado di assicurare da più di un punto di vista.

-I governi dovrebbero disincentivare con decisione il ricorso agli straordinari per incentivare le assunzioni. Ai datori di lavoro potrebbe essere concessa una serie di incentivi. Fra questi la possibilità, ad esempio, di spalmare la tredicesima mensilità sull’intero anno; ridurre la durata delle ferie a fronte del minore carico lavorativo settimanale dei lavoratori; risparmiare sul costo del lavoro in considerazione dei risparmi sulle malattie, perfino sulle pensioni, giacché è ipotizzabile una vita lavorativa più lunga perché meno usurante. Un aumento dell’occupazione, inoltre, non può che non giovare al mercato interno e, dunque, alle aziende.

-Allo Stato toccherebbe il compito di farsi carico della riduzione degli oneri sui lavoratori e sui datori di lavoro. Ma un maggior numero di occupati, e di potenziali consumatori, garantisce l’instaurarsi di un circolo virtuoso che si traduce sempre in un aumento degli introiti. Sono i risparmi però, o la riduzione degli sprechi, nei vari campi della sanità pubblica, dell’ambiente, del sistema pensionistico, che rappresenterebbero la maggiore opportunità per investimenti produttivi oggi sempre più urgenti: la scuola e la ricerca, le infrastrutture, il Mezzogiorno, la Sanità.

Una nuova sinistra dovrebbe porre al centro della propria attenzione la riflessione profonda, e coraggiosa, su una rivoluzione che, mentre si sta annunciando, già è diventata il nostro presente. Un presente che, se oggi sembra materializzarsi come una terribile traversia, non è detto che non possa offrirsi come una opportunità. L’opportunità di restituire dignità e fiducia a milioni e milioni di uomini e donne.

Nella foto di copertina: Mariano Paolozzi

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