Matteo_Renzi

Le dimissioni differite di Renzi, i segnali al Quirinale, e il calendario istituzionale

Un tempo, dopo tutto non tanto lontano, se un grande partito perdeva le elezioni la prima cosa che faceva il suo segretario era di convocare la direzione e se del caso si dimetteva: per favorire l’immediata scelta di un nuovo segretario, anche magari soltanto per il tempo necessario a consentire la convocazione e lo svolgimento di un Congresso straordinario. Ma evidentemente questa procedura, seguita anche da Bersani nel 2013, non piace al segretario del Pd Matteo Renzi uscito clamorosamente sconfitto dalle elezioni di domenica scorsa.
Il quale così non ha convocato alcuna direzione (neanche per i prossimi giorni), ma è andato in televisione e ha comunicato che riconosceva la dura sconfitta e che per questo si sarebbe dimesso, ma non subito. Soltanto dopo che sarebbero state elette le cariche istituzionali, formati i gruppi parlamentari e svolte le consultazioni del presidente della Repubblica per formare il nuovo governo. Solo allora, a procedure concluse, lui, il dimissionario, avrebbe convocato l’assemblea nazionale del Pd che a sua volta avrebbe dato il via alle primarie (il termine Congresso è a mio giudizio usato impropriamente) per scegliere il nuovo (?) segretario.

Qual è il senso di questa complessa ed elaborata procedura? Il segnale che Renzi manda alla minoranza del suo partito, ma anche al Quirinale è che quello del “qui comando io. Almeno per un bel po‘”. Vale a dire: sarà Renzi a formare e guidare la delegazione del Pd per le consultazioni di Mattarella e sarà a sempre lui a condurre per il suo partito i giochi per le elezioni dei presidenti di Camera e Senato. E inoltre nulla esclude che lui possa di nuovo presentarsi per concorrere alle primarie per la scelta del nuovo segretario.

Qui vale la pena di dare un attimo un’occhiata al calendario per l’avvio della nuova Legislatura: il 23 si riuniranno le Camere che come primi atti dovranno eleggere i presidenti di Camera e Senato e al tempo stesso si formeranno i nuovi gruppi parlamentari. Soltanto dopo il capo dello Stato potrà avviare le sue consultazioni in vista dell’affidamento dell’incarico di formare il nuovo Governo. E qui le cose potrebbero andare un po’ per le lunghe.
Vediamo perchè. Per scegliere il presidente del Senato la procedura è abbastanza semplice e rapida. Perchè se nelle prime tre votazioni a maggioranza qualificata nessuno sarà eletto si passerà a una votazione di ballottaggio tra i primi due votati e, per questo, alla quarta votazione il presidente sarà comunque eletto. Naturalmente tutto questo renderà ancora più complicate le trattative precedenti la quarta votazione tra le forze politiche. Per la Camera, invece, tutto è più complicato perchè il ballottaggio non è previsto mentre è previsto che anche dalla terza votazione in poi per essere eletti presidente ci vorrà il 50 per cento più uno dei componenti l’assemblea.

Di qui la sfida di Renzi al suo partito e anche i segnali non certo distensivi verso il Quirinale. Con la sua prudente moral suasion infatti Mattarella in questi ultimi giorni di dura campagna elettorale aveva fatto capire di aspettarsi un atteggiamento delle forze politiche che non esasperasse i toni ma smussasse gli angoli per consentire l’avvio della Legislatura. Renzi, invece, ha voluto subito mettere in chiaro prima che sarà ancora lui a dare le carte per il Pd e che in ogni caso resterà chiaro e forte il no del suo partito a qualunque non belligeranza (naturalmente politica) verso forze politiche populiste. Atteggiamento più che comprensibile in generale, salvo il fatto che nel concreto queste forze, certamente populiste, hanno vinto le elezioni.
Naturalmente Renzi ha anche spiegato che questa sua posizione è motivata dalla sua dura ostilità ai caminetti della prima Repubblica. Non ne parlava più da tempo e l’unico di quelli ancora in servizio permanente effettivo sembrava rimasto “il caminettone” del Giglio magico, quello che ha fatto le liste per le elezioni, tanto per intendersi. E comunque un attacco alla prima repubblica nei discorsi del giovane segretario non guasta mai. E questa volta serviva a giustificazione di quelle che molti hanno chiamato “le fake dimissioni” e che con la consueta sobrietà e con altrettanta pudicizia Stefano Folli ha chiamato: “le dimissioni posticipate“. Bizantinismi che non si ritrovano neanche nei più sofisticati riti del tempo dei caminetti.

Intanto nel Pd qualcosa si muove. Nè è un caso che il primo a reagire negativamente alle dichiarazioni di Renzi sia stato il capogruppo a Senato Luigi Zanda, uomo accorto, ai tempi il più stretto collaboratore di Cossiga al Viminale, e che Andrea Orlando della minoranza interna, secondo quanto riportato da Fabio Martini su “La Stampa” , abbia reagito al dichiarato fastidio di Renzi perché la camere non furono sciolte nel 2017 come lui chiedeva affermando: “Non puoi pensare che nel momento in cui siamo ridotti in queste condizioni metti le dita negli occhi al presidente della Repubblica, che è l’unico punto di tenuta del sistema, dando in sostanza a lui la colpa perché hai perso le elezioni“.

Foto di copertina: Matteo Renzi

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