Ieri sera, dopo la bella assemblea tenuta all’Atlantico a Roma, che ha lanciato il progetto per la ricostruzione di un polo di sinistra anche in Italia, la giovane e competente segretaria di Sinistra Italiana di Modena, Alessandra Di Bartolomeo, così ha scritto su facebook, e lo ha scritto così bene che non mi sentirei di aggiungere né togliere nulla:

“Inizi a capire il valore degli asterischi quando non compaiono. Questa lista è piena di compagne incredibili che lottano costantemente per una politica più femminile nelle pratiche e nei temi.
Non saranno due i a farci rimanere in disparte, e ci prenderemo lo spazio che meritiamo quotidianamente, assemblea dopo assemblea, iniziativa dopo iniziativa, banchetto dopo banchetto, per imporre una prospettiva di genere su ogni proposta programmatica e mostrare che c’è alternativa al modo macista e muscolare di fare politica anche a sinistra. È una promessa.”

Innanzitutto questa è la bellezza della lista unitaria: ritrovarsi meno soli, anzi in questo caso meno sole a rivendicare uno spazio di cambiamento, ritrovare compagni e compagne che lottano per le stesse cose in sigle differenti, da oggi finalmente sotto lo stesso tetto politico. Ha ragione Alessandra, ragione da vendere. Scrivendolo con un po’ di romanticismo, se il 4 Dicembre è stata la rivincita per mezzo di quel “no” degli esclusi, dei perdenti della globalizzazione, delle città a più alto tasso di disoccupazione, dei giovani, del mezzogiorno, è stata anche la rivincita di quella che è ancora la parte più debole della società: le donne. Le donne a cui non viene riconosciuto il lavoro di cura, le donne tutti i giorni nelle cronache dei giornali per le violenze subite, per i ritardi nei soccorsi e nella tutela, le donne che ancora vengono pagate meno degli uomini a parità di mansioni, le donne che da sempre costruiscono collettivi e mediazioni in un mondo di singoli al comando e uomini che appunto fanno le “prime donne”. Esistono molte forme di discriminazione e spesso non fanno clamore. Quando non si tratta di vistosi licenziamenti per maternità o di atteggiamenti che sconfinano sul penale, nessuno si cura del fatto che in molti ambienti – e la politica è uno di questi – ciò che dice una donna spesso vale meno di ciò che dice un uomo, persino quando usano le stesse argomentazioni e gli stessi termini; in pochi si curano del fatto che il giudizio estetico e morale pesa ancora come un macigno che spesso drena molte energie che potrebbero essere dedicate ad altro nella costruzione de sé femminile. Mi sono sempre occupata poco delle questioni di genere perché ho sempre ritenuto che il cambiamento del sistema politico ed economico in senso più egualitario e libertario avrebbe portato beneficio appunto innanzitutto alle persone più deboli, quelle per cui è più urgente rimuovere gli ostacoli; ma, proprio come scrive Alessandra, la questione di genere si ripresenta più potente che mai proprio quando sembra che nessuno se la ponga.

Sarebbe stato meno vistoso chiamare la lista “liberi” se i soggetti che la compongono negli anni avessero coltivato una classe dirigente femminile capace di stare a pari merito sul palco con i “tre moschettieri”. Sarebbe stato meno scontato porre questo tema se le nostre sezioni fossero affollate da giovani ricercatrici e lavoratrici e sindacaliste e donne che hanno scelto, libere di farlo, di essere casalinghe. Ma la verità è che le donne non sono libere di scegliere perché nessuno è libero nel bisogno. Può essere certamente un caso che sul palco dell’Atlantico siano saliti 4 leader tutti maschi della nuova formazione. Tuttavia non è un caso che anche in questa campagna elettorale l’unico volto femminile sarà quello di Giorgia Meloni, estrema destra, come già successo per Le Pen in Francia, per la May in Inghilterra e per Merkel e Alice Weidel in Germania. Modelli discutibili, che incarnano idee da noi lontanissime; modelli di donne che spesso non lottano per le donne ma simboleggiano l’equivalente de “l’uomo forte” da un’altra angolazione. E pure il dubbio non può non venirci: è possibile che la sinistra che rivendica libertà e uguaglianza sia da meno delle destre? Persino dei grillini che esprimono nelle loro prime sindacature delle grandi città Virginia Raggi e Chiara Appendino?

Non si tratta evidentemente di lottare per uno spazio femminile in quanto tale. Siamo stanche di modelli femminili in politica, come tanti ne abbiamo visti anche nel Partito Democratico, che compongono una nominale parità di genere nel Consiglio dei Ministri ma che poi riducono i fondi per i centri antiviolenza, o che votano il Jobs Act che rende più facili i licenziamenti disciplinari anche per quelle donne che dovendo dedicarsi al lavoro di cura possono iniziare il turno con qualche minuto di ritardo. Siamo stanche degli uomini che candidano le donne solo per riempire le cosiddette “quote rosa” come se fossimo panda in estinzione e non il pilastro di questo paese, un paese ancora a conduzione familiare per così dire. Siamo stanche di tutte le volte che ci hanno detto “vai, mettiti in prima fila che c’è la televisione, così facciamo vedere che ci sono delle donne giovani in sala” o “serve una donna sul palco”. Siamo stanche perché possiamo essere brave, molto più brave degli uomini e su quel palco meritiamo di starci, oppure essere molto peggio di altri e quindi non ha senso salirci. Siamo stanche perché non possiamo capacitarci del fatto che nessuna di noi si è rivelata così efficace da diventare segretaria di uno dei tanti partiti di sinistra che si sono ritrovati a Roma, e persino di quelli che là non si sono ritrovati. Proprio come i giovani, che spesso non trovano spazio a meno che qualche adulto non lo conceda loro, perché non si sanno organizzare, è tempo di una riflessione anche fra le donne di questa parte politica, che forse non hanno saputo portarsi avanti l’un l’altra per rivendicare uno spazio che non vi è motivo per non avere. Alcune delle manifestazioni più partecipate in questo paese nel quale il movimento sembra fermo sono state quelle per “non una di meno”, alcuni dei fenomeni di solidarietà più vistosi quelli di #metoo che raccontavano episodi di discriminazione gravi e meno gravi subiti dalle ragazze e dalle donne così che coloro che ancora non avevano denunciato non si sentissero sole nel farlo o peggio malgiudicate.

In fondo è giusto chiamare la lista “liberi e uguali” perché noi non siamo libere, ma vogliamo diventarlo; e non siamo uguali, siamo diverse, diverse dagli uomini perché non c’è cosa più ingiusta che fare parti eguali fra diseguali, ma chiediamo giustizia. Tocca a noi quindi far diventare questa battaglia una delle priorità del nuovo soggetto, così che la prossima volta non ci sia bisogno di concentrarsi sulle questioni linguistiche del nome, ma solo sulla grandezza delle cose che insieme stiamo costruendo.

Foto di copertina: L’assemblea che ha dato vita a Liberi e Uguali

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