Macron Hamom Melenchon

Lontano da dove. Noterella sull’identità della sinistra in Italia

Mentre sento i risultati delle presidenziali francesi [(Melenchon (19,6%) e Hamon (6,3%), insieme avrebbero avuto la meglio su Macron (23,9 %)] mi chiedo: ma lontano da dove arriva, in Italia, l’attuale condizione ideale e materiale della Sinistra, la scissione tra elitismo e populismo, la difficile nascita di “Art. 1”, le posizioni assunte dai candidati alle primarie del PD, l’andamento delle primarie stesse, l’astensionismo, la presenza e i conflitti e la frantumazione di formazioni, movimenti, associazioni, sigle, gruppi che si richiamano ai valori della Sinistra?

Davvero questa condizione è dovuta alla “ristrettezza mentale e all’avarizia morale dei protagonisti” come ha argomentato con un accento duramente moralistico Luca Ricolfi nella sua ultima fatica ( Sinistra e popolo, Milano, Longanesi 2017)? Provo a non arrendermi alla cronaca di un generico “populismo di governo” né a rassegnarmi ai modelli statistici della lotta di classe. Anche se non è una grande scoperta, vorrei tentare di focalizzare parzialmente questa condizione in prospettiva storica, a ricondurla alla fine delle grandi identità collettive dei “partiti operai” in Italia, alla trasformazione “etico-politica” che ne è seguita e che ha investito il nesso, il rapporto tra gruppi dirigenti e masse, invece di continuare a parlare di “tradimenti”, di polemizzare nel nome del partito o della leadership, di denunciare i limiti fortissimi del “renzismo” o di chiacchierare sulla protervia e lo smottamento della Sinistra nello sminuire la percezione degli elettori.

Disciplinamento e forma partito. Dal drammatico concludersi del “secolo breve” ci separa solo lo spazio di una generazione. Eppure l ‘affiorare di uno “spirito del mondo” non più “occidentale”ed eurocentrico soltanto, ma “globale”, ha contestato alla radice la forma di disciplinamento propria di quei partiti. Un disciplinamento nei fatti “storicamente determinato”, accostato da uno storico di professione a quello dei gesuiti (A. Prosperi. La vocazione , Torino, Einaudi 2016), e comprensibile, più da lontano, secondo un altro grande storico, con la “fuoruscita” dal “dualismo costituzionale tra politico e sacro” (Paolo Prodi); un disciplinamento che, tuttavia, con qualche variazione ha reso possibile tenere insieme per tutto il Novecento dirigente e “base”. “Con l’epoca nella quale si trovò ad agire”, anche la forma di questo disciplinamento, le forme-partito – nate ricorda Alfredo Reichlin a seguito della “Grande Guerra”, della Rivoluzione d’ottobre, e poi della Resistenza e della lotta partigiana – sono finite. Oggi una forma partito nuova è richiesta alla Sinistra soprattutto dal problema del governo di un passaggio “cruciale” della vita nazionale, paragonabile secondo alcuni (lo stesso Reichlin) al “diciannovismo” (Cfr Il silenzio dei comunisti Torino, Einaudi 2002 pp.47, 61), secondo altri al clima culturale del “Fronte dell’Uomo qualunque” (Cfr A. d’Orsi, Antipolitica e uomo qualunque in Micromega 4 2012) . Elemento comune di entrambe le comparazioni è la vistosa rottura del rapporto tra masse e gruppi dirigenti che genera anche un larghissimo astensionismo. Rottura che a leggere un “classico” della Sinistra come Antonio Gramsci, si spiega con la crisi dello stato, la crisi di egemonia, e la trasformazione degli snodi che costituiscono le identità collettive.

Civilizzare la globalizzazione. Certo, autonominarsi “eredi “dei vecchi partiti, definire “reduce” chi non è d’accordo, la considerazione dei nuovi poveri come nuovi “umili”, sono indicatori più dell’impotenza a comprendere realmente le nuove identità che dell’inefficacia a governare effettivamente la nuova questione sociale, a rappresentarla anche nel suo aspetto confuso di ”società degli individui” (Cfr N. Elias, La società degli individui Bologna, Il Mulino 1990). Oggi facendoci soccorrere da Gramsci, dovremmo riportare questa situazione alla crisi dello stato-nazione, al prospettarsi di stati federali europei; ai nuovi difficili nessi tra “locale” e “globale”, alla dirimenza dei diritti civili, per comprendere, raggiungere e organizzare il dipanarsi delle nuove identità di massa. L’identità di sinistra si costituisce cominciando a domandarsi, a fare l’analisi concreta di chi sono gli italiani di oggi. E in effetti non a caso anche altri, insieme a Reichlin, se lo chiedevano nel testo citato: Miriam Mafai e sopratutto Vittorio Foa, grandissimo sostenitore della necessità di reinventare l’identità di sinistra in Italia ( Cfr Il silenzio dei comunisti cit.) Con diversi accenti, a questa domanda è riportato il venir meno del nesso di disciplinamento con cui nel secolo passato si era dato forma e forza ai partiti operai; e con essi alla stampa, all’editoria, alla formazione degli intellettuali, all’organizzazione del lavoro, alla forza d’attrazione del programma politico. Reichlin parla esplicitamente della necessità di un pensiero diverso da quello col quale la sinistra interpretò il Novecento e Miriam Mafai riassume il compito e il segno della nuova identità di sinistra con l’espressione “civilizzare la globalizzazione” (pp. 40, 42)

Identità e lavoro. Una civil conversazione. Ed è ciò che manca. Perché, ovviamente, non vanno in quelle direzioni i tentativi centristi di “mettersi in cammino” verso il superamento della distinzione tra destra e sinistra – così cara ad autori e commentatori non solo conservatori ma anche inneggianti ad un “Nuovo”, indistinto e pragmatico, veloce e con facile presa nell’immediato; né aiutano gli altri speculari tentativi di ritornare nostalgicamente ai blocchi sociali di una volta, ai vecchi partiti di massa e ai loro “nomi” . La parte migliore di queste posizioni fa parte della “storia degli effetti “ della rottura tra gruppi dirigenti e masse dei (gloriosi) partiti operai novecenteschi. Pochi vedono che per sanare la rottura, ricostituire un legame “essenziale” bisogna elaborare il lutto e ripartire assolutamente dall’orizzonte contemporaneo di aspettative – così come, per es., suggerisce sottovoce Enrico Rossi con le sue proposte ed indicazioni, particolarmente quelle riguardanti il lavoro (Cfr. la conversazione con Peppino Caldarola, Rivoluzione socialista. Idee e proposte per cambiare l’Italia, Roma Castelvecchi editore). Il lavoro è un tema che va studiato dopo quell’elaborazione nel concreto della ricerca e delle lotte, nella sua composizione di disciplina e autonomia, nella messa a punto dei conflitti che riguardano oggi il controllo delle conoscenze, la produzione delle informazioni, l’interesse generale ( B. Trentin La città del lavoro, Sinistra e crisi del fordismo , Firenze University press 2014; F. Berardi , Bifo L’ anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia Roma Derive/approdi 2016). Sbagliare l’analisi del lavoro, richiamarsi soltanto alla situazione emotiva del “nostro popolo”, significa sbagliare tutto – per riprendere l’espressione di Togliatti citata da Reichlin. Ed è un punto di differenziazione decisivo. Se all’interno della cultura “novecentesca” della sinistra era prevalente sottolineare nell’analisi del lavoro la disciplina, che fidelizzava e nello stesso tempo rendeva “soggetti”, “classe per sè”; oggi forse si può organizzare il lavoro puntando sull’autonomia, su un appropriato smart working, anche nelle “periferie” e nel sud “profondo” tra i “giovani”, “i nuovi poveri”, le “donne”. (Vittorio Foa, “da lontano” lo incoraggiava nelle sue conversazioni: Scelte di vita. Conversazione con Giovanni De Luna, Carlo Ginzburg, Pietro Marcenaro, Claudio Pavone, Vittorio Rieser, Torino Einaudi 2010).

Nella foto di copertina: Emanuelle Macron, Benoit Hamom e Jean-Luc Mélenchon

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