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Lorenzo Cattani: La fine dell’Iri e la necessità di una “nuova Iri”

Appare ormai chiaro come il paradigma neo-liberista, che a dieci anni dall’inizio della crisi non è stato ancora affiancato da un pensiero alternativo, abbia prodotto in Italia una crescita trainata dai bassi salari, che ha aumentato la disuguaglianza. La chiave per sbloccare questa situazione è quella di puntare su una crescita “intelligente”, basata sull’innovazione, che possa però anche essere “inclusiva”, come suggerito dal piano Europa 2020. Serve, quindi, una crescita trainata dall’innovazione che permetta di ridurre le disuguaglianze.

Nel caso italiano, con quale metodo potrebbe trovare applicazione un simile piano? In altre parole, questo significa chiedersi quali siano le caratteristiche principali del “sistema di innovazione italiano”, per usare un termine caro a Pierluigi Ciocca, e in che modo tali caratteristiche possono essere incentivate e sostenute dall’azione politica.
Una simile riflessione deve partire dalla storia del nostro paese, chiedendosi se vi sia stato un momento nella storia in cui l’Italia abbia saputo sfruttare le proprie potenzialità, generando una crescita omogenea, che nel caso italiano deve essere misurata tenendo anche in considerazione il divario fra il Centro-Nord e il Mezzogiorno. Un simile periodo è esistito ed è stato quello del miracolo economico. Ciò che è più importante però è che una delle caratteristiche distintive del modello di sviluppo italiano di quegli anni era il carattere ibrido del sistema di produzione, con lo Stato direttamente coinvolto nella produzione di beni, tramite l’IRI. L’Istituto per la Ricostruzione Industriale – la cui storia è stata ricostruita molto bene da Pierluigi Ciocca in un volume uscito due anni fa – nacque nel 1933, quando si resero necessari i salvataggi di tre banche, che avevano partecipazioni in molte imprese italiane: il Banco di Roma, Credit e Comit.

Inizialmente questa esperienza doveva essere temporanea, ma nel corso degli anni l’Istituto divenne un importante meccanismo del nostro regime di produzione. Tramite l’IRI, lo Stato riusciva a supplire alla strutturale mancanza di vivacità del capitalismo privato italiano, riuscendo a muoversi sulla frontiera della tecnologia: il successo trainato dalla meccanica leggera durante gli anni del miracolo nasce in seguito all’esplicita volontà dei policy-makers di puntare su quel settore. Esempio di quella scelta fu certamente il piano di Oscar Sinigaglia in campo siderurgico, essenziale per fornire materie prime a basso costo a imprese meccaniche come la Fiat. All’interno dell’IRI però nacquero anche laboratori, prima di tutto intellettuali e culturali, per sperimentare nuove forme di relazioni industriali, che puntassero alla riduzione della conflittualità fra capitale e lavoro, un esperimento che nel settore privato verrà condotto solo da Adriano Olivetti.

Purtroppo, al momento della sua nascita l’IRI incorporava già al proprio interno i germi del suo declino: l’Istituto era infatti diventato un meccanismo del nostro regime di produzione, ma originariamente era nato come strumento di politica economica per salvare, e ipoteticamente risanare, imprese in grave difficoltà. Col difficile periodo della stagflazione, complice anche la più complessa stagione politica che l’Italia repubblicana abbia vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale, l’IRI si ingigantì eccessivamente, subendo molte ingerenze da parte della politica. Dopo il fallito risanamento arrivò, quindi, il momento delle privatizzazioni degli anni ’90 (anche se la prima delle cessioni celebri fu quella dell’Alfa Romeo che fu venduta a Fiat anziché alla Ford perché, ironicamente, si voleva tutelare “l’italianità” del marchio). In questo periodo le privatizzazioni vennero viste come la naturale risposta ad una situazione di difficoltà economica, caratterizzata da una forte crisi del debito pubblico. Privatizzare voleva quindi dire ridare efficienza al sistema, tutelare la competitività del mercato, riducendo allo stesso tempo l’indebitamento; a rinforzare questa convinzione concorse anche l’Europa, che con il Trattato di Maastricht richiedeva una maggiore attenzione al rispetto dell’articolo 90 del Trattato di Roma sulle imprese pubbliche. Tale articolo chiedeva un maggior controllo sulle imprese pubbliche, esigendo che anche le garanzie offerte a fronte di perdite continuate nel tempo andasse considerato come aiuto, pertanto lesivo della concorrenza.

Per una commistione di elementi nazionali ed europei, l’Italia intraprese un percorso che portò alla liquidazione dell’IRI. Ciò che è rimasto di quella esperienza è stato riorganizzato in nuove finanziarie e posto sotto il controllo di Cassa Depositi e Prestiti o del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tuttavia, questa commistione ha prodotto delle soluzioni di breve periodo che si sono rivelate strutturalmente instabili per il “sistema Italia”: dover rientrare nei parametri di Maastricht ha, infatti, stimolato una “svalutazione interna” trainata dal taglio del costo del lavoro e delle spese sociali, al fine di riacquisire competitività ed efficienza, a testimonianza dello scollamento, da colmare assolutamente, fra Europa economica ed Europa sociale.

In aggiunta a ciò, le privatizzazioni di quegli anni hanno dimostrato che a distanza di più di cinquant’anni il capitalismo privato italiano continua ad essere carente sotto molti aspetti. La fine dell’IRI ha segnato anche la crisi nera della grande impresa in Italia, al punto che alcuni commentatori ed esperti arrivano a definirla un’esperienza chiusa, senza tenere però conto che puntare sulle sole PMI come motore di crescita del paese non può essere sufficiente poiché se un’impresa di successo non cresce, vuol dire che si è di fronte ad un ristagno di tutto il sistema produttivo. Eppure il governo italiano non pare essersi liberato della fascinazione delle privatizzazioni: è infatti degli ultimi giorni la notizia per cui il Mef starebbe pianificando la costruzione di una superholding in cui far confluire i propri asset e quelli di CDP, per poi privatizzare fino al 49% di questo ipotetico soggetto.

Queste scelte hanno fatto sì che l’Italia abbandonasse un sentiero di sviluppo, che nonostante fosse da perfezionare, era riuscito ad individuare le fragilità del nostro regime di produzione fornendo risposte tutto sommato adeguate. Detto ciò, la domanda che si pone automaticamente è che fare. Innanzitutto è necessario ribadire con forza il ruolo dello Stato Produttore in Italia: CDP e Mef farebbero bene a mettere insieme i propri asset, ma lo scopo non dovrebbe essere quello di privatizzarne il 49%, bensì costruire le basi per una “nuova IRI”, che possa fungere da testa di ponte per gli investimenti pubblici in materia di politica industriale. All’interno di questo ipotetico soggetto si potrebbero veicolare investimenti per la creazioni di grandi laboratori di ricerca, che lavorino a stretto contatto con quelli delle università, al fine di dare dinamismo al circuito di ricerca e sviluppo. Il meccanismo delle partecipate può anche essere un modo interessante per creare interazioni e sinergie virtuose con i privati, i quali, in assenza di pianificazione pubblica, probabilmente non investirebbero su laboratori di ricerca e sviluppo. Si potrebbe anche investire sulla creazione di una sorta di “fondo sovrano per l’innovazione” finanziato in parte con la leva fiscale e in parte con ipotetiche royalties che lo Stato dovrebbe incassare ogni volta che le aziende private producono un nuovo bene sfruttando innovazioni tecnologiche sviluppate da laboratori pubblici o universitari.

Unitamente a ciò si imporrebbe un’importante riforma delle politiche in materia di relazioni industriali: puntare sempre più sulle competenze dei lavoratori e l’apprendimento costante, allungare la durata dei contratti di lavoro e aumentare i salari, il tutto all’interno di un’ottica che favorisca la creazione di una struttura aziendale “orizzontale” e meno verticistica e gerarchica. In questo modo si potrebbero fare dei passi concreti per riaprire, correggendolo dalle imperfezioni con cui era nato, quel sentiero da cui l’Italia ha iniziato a scostarsi a partire dagli anni ’90 e da cui si potrebbe effettivamente generare una crescita intelligente, trainata dall’innovazione, ed inclusiva. Il vero problema al riguardo è il consenso attorno a simili politiche, sia in Europa sia in Italia. La costruzione di un simile consenso sarà il primo obiettivo importante per una forza di sinistra che ambisce a ridurre le disuguaglianze e riprendere un percorso stabile di crescita economica.

 

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