Massimo D'Alema

Non possiamo non dirci Dalemiani

Perché non possiamo non dirci Dalemiani. Oggi essere Dalemiani, da Sinistra, rischia di diventare un dovere civile prima che politico. Un dovere democratico. In questi tempi tristi che viviamo lo squadrismo politico e giornalistico contro D’Alema  rappresenta quel linguaggio, quindi quel pensiero, che una moderna sinistra ha il dovere di arginare, combattere e superare. Ogni mattina qualcuno si sveglia e cerca di dare la colpa di qualcosa all’ex presidente del consiglio con vili attacchi personali, squallidi e volgari argomentazioni non politiche, impolitiche. Il tentativo di addossare a Massimo D’Alema tutti i mali del mondo è ormai pratica quotidiana e diffusa. Ho il timore che sia il distrattore per mascherare la totale assenza di pensiero e dei valori proprio dei sui stessi avversari. Una frustrazione: Mia moglie m’ha lasciato? Hashtag #ètuttacolpadiDalema.

Non è mia intenzione difendere il presidente di Italiani Europei: non ne ha bisogno e ci pensa benissimo da solo. Perfino troppo bene. Mia intenzione è affermare un principio sacrosanto in un regime democratico. Non entro nel merito di questioni politiche. Massimo D’Alema avrà i suoi meriti e demeriti, luci ed ombre, colpe e pregi. Ma l’antidalemismo militante ha il sapore di marcio. Famoso è il camion con la scritta “Matteo Renzi, Avanti!” e il manichino di D’Alema, morto stecchito, sotto le ruote. Meno famoso l’editoriale apparso sulla nuova Pravda renziana di Claudio Cerasa: dopo 5000 battute in cui non si capisce un granché arriva l’augurio rivolto all’ex segretario dei Ds di passare a miglior vita. Che eleganza, che raffinatezza. Più famosa, invece, la foto di gruppi non ufficiali (?) PD in cui si danno le colpe delle 10 piaghe d’Egitto lo sapete a chi? A Massimo da Gallipoli. Ma che sciocco che sono: anche a me, una volta, è capitato di sbattere il mignolo contro il comodino. Sbigottito, ho scoperto che era semplicemente Massimo D’Alema, travestito da Ikea.

Al di là delle battute e delle chiacchiere, questi comici sottratti ad altre attività fanno tutto ciò, credo, per colmare la profonda lacuna politica e programmatica del loro pensiero. Attaccano D’Alema per riconoscersi, sparano su di lui per nascondere il nulla di cui si fanno portavoce. Insomma, per sentirsi un po’ più fighi: come i ragazzini che s’acconciano i capelli come Cristiano Ronaldo per rimediare qualche bacino dalla loro Beatrice, senza rendersi conto di risultare semplicemente ridicoli. Alla fine non se li fila nessuno, di Beatrice nemmeno l’ombra: almeno Dante, pace all’anima sua, ha sostituito l’amore negato con la Commedia Divina. Perdoniamo ai ragazzini l’ingenuità, gli odiatori seriali di D’Alema, invece, non hanno più 18 anni da un pezzo. (Dio non voglia che a qualcuno vengano in mente i 500 nani che s’armano per uccidere il gigante, come Nietzsche insegna…).

Essere contrari a una politica non solo è legittimo, ma è il sale della democrazia. Opinare comportamenti personali, in fin dei conti, può essere altrettanto legittimo. Ma usare come pungiball qualcuno ha un sapore deviato e deviante. Di qui, una breve analisi politica va affrontata. Viviamo in un’epoca, Referendum docet, che nega il passato tout court. Nega storie personali, vicende, comportamenti, idee, errori e momenti. Moderni Ministeri di orwelliana memoria del lontano 1984 con tratti drammaticamente farseschi. Questa negazione barbarica del passato, sostituito da un presente non entusiasmante, e l’ironia vile e gratuita generano un modo di fare al tempo stesso squadrista e stalinista, paurosamente somigliante al comportamento che questi disprezzatori seriali rinfacciano a D’Alema stesso. Chapeau.

Una vicenda che farebbe già ridere così, se non fosse che c’è un secondo atto della commedia tutto da raccontare. L’atteggiamento di questi apprendisti stregoni sottolinea la centralità del denigrato: sembrano dei perseguitati, gli danno un credito che fa a pugni con l’irrilevanza a cui vorrebbero ridurlo. Si chiama eterogenesi dei fini che, solo in questo caso, in napoletano si traduce in “cornuti e mazziati”. Ma il latrare continuo contro un uomo che, in fondo, è lontano dal potere, nasconde una paura comune. Faccio mie le parole di Peppino Caldarola: “La carica di rivolta che sta crescendo nel paese”, nel mondo. L’incapacità di leggere il reale, d’incrociare la sofferenza che serpeggia e agita la società viene tradotto nell’odio verso D’Alema. Una sofferenza che non solo non trova sollievo nelle politiche degli odiatori, ma forse viene alimentata se non causata dal loro stesso agire politico. Ed è quello che D’Alema, e non solo, sostiene. Ed è quello a cui D’Alema, e non solo, prova a dare risposte con ricette nuove e antiche. Chi non arriva all’uva, quindi, dice che è colpa di D’Alema.

Siamo all’atto finale. Questi fenomeni della decomunicazione non si rendono conto che offendendo gratuitamente l’uomo politico, oltre a regalargli una rinnovata simpatia, offendono le migliaia di persone che affollano teatri, piazze, circoli e associazioni per ascoltare le parole dell’ex presidente, facendole proprie. E che sono pronte a votarlo se decidesse, come spero, di candidarsi ancora una volta. Per questi e tanti altri motivi tocca essere dalemiani per principio, è una testimonianza di libertà. Anche per me, che dalemiano non lo ero, ma non mi invento antidalemiano proprio oggi. Tocca farlo per arginare questa deriva culturale figlia dei tempi tristi che viviamo. Lavorando per giorni migliori tenendo presente che è sempre, solo e tutta colpa di Massimo D’Alema.

Nella foto di copertina: Massimo D’Alema

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