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Non tolleriamo che sia dileggiata la nostra storia

Poche cose mi colpiscono in questa campagna elettorale stanca e ipocrita. Però sono rimasto davvero male per quella sceneggiata offensiva e irrispettosa verso la nostra storia, di Casini e Renzi alla Casa del Popolo di Bologna. E non perché non sia più volte accaduto che nella politica si possa stringere alleanze di governo. E non perché Casini non abbia il diritto di andare in una Casa del Popolo a testimoniare la sua presenza nelle liste del PD. Ci mancherebbe altro. No, il mio disagio sta nelle cose che ha detto, nei sorrisetti di intesa che si è scambiato con Renzi rispetto a questi nostalgici militanti ex comunisti fermi a trent’anni fa e affermare con enfasi canzonatoria: “sono a casa mia” “questa è anche la mia storia“. No caro Casini, non sei a casa tua, quei quadri dietro di te che ti guardano stupiti, Togliatti, Gramsci , Di Vittorio, Matteotti, Berlinguer, sono un’altra storia. Abbiamo commesso degli errori? Si, senza alcun dubbio. Ma, ti assicuro, siamo un’altra storia. Già, quei militanti, in quelle case del popolo… Per quanto mi riguarda, non sono mai stato un rivoluzionario. Sono stato un militante comunista, questo sì. Perché militante?

È giusto usare questa parola così desueta e antiquata?
È una parola che ho amato molto e che amo ancora, oggi che non mi serve più. Quando la pronuncio sento ancora un’emozione che assomiglia a quando la scoprii da ragazzo.
Era un libero legame – riprendo questa espressione dall’ultimo libro di Mario Tronti – che ci univa in un’unica famiglia, visibile perché praticata fuori, invisibile perché coltivata dentro: quella del movimento operaio di segno comunista.
“Comprendo come non lo possa capire chi non ha attraversato quella esperienza. Non è una colpa, però è una mancanza. E allora non comprendo perché, non avendola vissuta, ci si permetta di dileggiarla. Ecco, questo non va intellettualmente tollerato. Ecco, la dico così: tutti coloro che si sentono sull’onda della storia che avanza, sono come gattini che di notte, abbagliati dai fari, si lasciano investire da una macchina spietata.
E dico una cosa di cui sono convinto e di cui non m’importa di convincere altri: solo chi è stato comunista nel Novecento può vivere oggi fino in fondo la condizione di spirito libero.
Poi spiriti liberi ce ne sono, e ce ne sono stati tanti, ben al di fuori di quella esperienza. Ma l’essere stato comunista nel Novecento ha lasciato in eredità un patrimonio di pratica spirituale, di libertà di pensiero che, certamente, non dà nessuna delle tante libertà concesse dai sistemi democratici. Chi non ha avuto la fortuna di vivere quella condizione, penso alle nuove generazioni, dovrebbe appropriarsene nel corso della sua formazione”.

Ecco, ancora oggi, in giorni in cui la mia decisione consiste nel non rinnovare il voto a un partito che di militanti non sa davvero nulla e ha abbandonato i valori che mi tenevano unito, mi piace considerarmi un vecchio militante. È come dire: sono stato nella storia dei comunisti, non solo nel senso generico di appartenenza al PCI, ma perché ho partecipato agli eventi. Sono stato parte: la parte che voleva cambiare il mondo. E certo, la passione ha oscurato lo spirito critico, la capacità di guardare le cose come stavano. Eppure, ancora oggi dirsi militante significa dare una risposta alla mediocrità di questi tempi. Affermare ancora una volta che sono cambiato ma non ho abiurato.
Consapevole ancora che quegli anni lontani, difficili, faticosi, a volte sbagliati, sono stati davvero, per dirla con il titolo di un bellissimo romanzo di Antonio Scurati, “il tempo migliore della nostra vita”.
Non il tuo tempo caro Casini, tu eri in un’altra storia e ti sei dedicato ad altro.

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