Giovani_Giovani

Pd, il dovere di cambiare. Ascoltate i giovani-giovani

Nel 2013 l’avvento dell’allora “nuova classe dirigente renziana” venne accolto come una ventata di aria fresca, per la politica come per il paese. La nuova dirigenza era vista come giovane e, da un punto di vista anagrafico, a ragion veduta: dopo il quarto Governo di un ormai settantacinquenne Berlusconi, il secondo Governo tecnico d’Italia a guida Mario Monti (settantuno anni) e un seppur quarantaseienne Enrico Letta, chi poteva battere il trentanovenne Matteo Renzi, più giovane Primo Ministro d’Italia e d’Europa? Poi, però, sono venute le politiche, poi sono arrivate le riforme.

A scrivere è uno nato negli anni Novanta, il Presidente del Consiglio e i suoi fedelissimi si muovono all’interno dei settanta. Li voglio ancora più “giovani”? Neonati? No non è questo. Li trovo già appassiti è vero, ma qua non c’entra l’anagrafe. Semplicemente: c’era da aspettarselo.

Gli anni settanta-ottanta saranno e sono già ricordati per l’avvento e piena affermazione del neoliberismo che vede nel duopolio Thatcher-Reagan il proprio storico riferimento. Ed è in questo contesto che la neonata classe dirigente italiana è cresciuta e si è formata. Anni d’inizio dell’omologazione di pensiero che hanno reso impossibile mettere in discussione o concedere credibilità, almeno sino all’attuale crisi economica, a qualsivoglia interpretazione o ricetta del mondo che uscisse dai contorni del primato del libero mercato e della governance. E, quindi, velocità, individualismo, tecnocrazia, policy of evidence: tutto questo ha forgiato la società ma ancor prima i suoi giovani membri. Ecco il contesto, i valori, che hanno accompagnato l’occidente degli ultimi decenni ed ecco che oggi, per la prima volta, quegli stessi valori vengono messi credibilmente in discussione.

LA VECCHIA GUARDIA E I GIOVANI-GIOVANI – Da chi? Da coloro i quali non si sentono parte di questa visione, paradossalmente due estremi: da una parte troviamo chi si è formato ben prima di quegli anni e dall’altra chi molto dopo. Sono la “vecchia guardia” e i “giovani-giovani”, i secondi in particolare sono gli attuali poco più o poco meno che ventenni.
Queste due generazioni hanno molto in comune, condividono una visione del mondo che per i primi deriva tendenzialmente da una formazione ideologica che li ha accompagnati nella loro crescita, per i secondi, invece, è il risultato di una evidenza che la realtà gli ha mostrato: i limiti dell’individualismo contro la comunità, del mercato contro le persone, della tecnocrazia contro la politica, dell’accumulo contro la condivisione. Sono gli insegnamenti che dieci anni di crisi economica hanno lasciato e lasceranno nelle menti delle generazioni “giovani-giovani” e con i quali, una parte di quelli che hanno conosciuto il mondo prima degli anni ottanta, è stata formata.

Oggi la spaccatura tra la “renziana” e la precendente-successiva lettura della realtà è più aperta che mai. Il malessere è percepito ma le risposte tardano ad arrivare. La responsabilità di ciò? Prendiamo il caso delle ultime amministrative: in queste, tra astensionismo e consistente perdita di voti da parte del PD, tale malessere si è espresso con forza (seppur non ancora piena). A sentire l’attuale dirigenza renziana le colpe di un tale risultato andrebbero addossate unicamente: all’insufficiente cambiamento (per questi, “cambiamento“, è il perpetuare quelle politiche che si sono già dimostrate inutili se non fallimentari, oltre al continuare a credere che bonus e comunicazione possano inibire gli animi) e al “partito locale” (colpevole di non aver perseguito quel rivoluzionario cambiamento che invece, a livello centrale, ci sarebbe stato). In una parola dunque (citando il Segretario Renzi) la responsabilità andrebbe data ai “non giovani” e dunque, proseguendo nel ragionamento fino a qui portato avanti, alla “vecchia guardia” e ai “giovani-giovani”, rei di non aver compreso la rivoluzionaria innovazione presente nel cambiamento in atto.

La nuova dirigenza parla di cambiamento, un mutare che è però mera estetica: è il rifacimento della facciata della casa quando le fondamenta e le tubature continuano a rimanere quelle di sempre. Come ha detto il Presidente Prodi, sarebbe auspicabile “cambiare le politiche e non i politici”. Parole che sembrano perdersi nel vuoto.
Siamo di fronte ad un giovanilismo e ad una presunta rivoluzione copernicana operata da “giovani” che, da membro degli anni novanta, devo ammettere, a me paiono già vecchi. Figli della loro epoca, della velocità, che li ha resi già il passato. Un cambiamento di facciata, basato su socialnetwork e comunicazione che, però, non basta per rappresentare e parlare alla società contemporanea, non basta per rispondere all’ormai endemico disagio sociale. Servono risposte che siano politiche.

E in questo contesto il partito potrebbe e dovrebbe ritrovare il ruolo che gli spetta. Luogo di dialogo, ascolto e sintesi in cui, senza arroccamenti ideologici, si discute e si trovano soluzioni. Come ci insegna Bernard Manin, esponendoci la sua illuminante definizione di “democrazia del pubblico”, è vero che oggi centrali sono diventati i leader con il loro fare carismatico, ma tutto ciò non si concretizzerebbe in nulla se alla base del loro operato non ci fossero: A) dei partiti, e B) dei partiti dai contorni, per quanto più liquidi rispetto al novecento, comunque definiti. Questi due principi sono stati completamente disattesi nell’azione del Partito Democratico degli ultimi anni.

UN PARTITO SFORMATO – Il partito è stato sminuito, fino a rasentare il ruolo di un contenitore di hostess e stewart che, come in un qualsiasi evento privato, vengono chiamati al bisogno, per distribuire volantini o fare la security a un qualche evento. Il ruolo dei militanti termina qui. Sui contorni, poi, non penso ci sia molto da aggiungere all’evidenza quotidiana: il partito si è sformato, ora in un circolo è possibile trovare tra i neo tesserati ex membri di Forza Italia o attuali Verdiniani. E qui mi fermo.

POPULISMI IN AGGUATO – Il disagio sociale è enorme e fino ad ora ha trovato solo palliativi, non risposte. Vero è che illudere i cittadini dell’esistenza di risposte semplici a domande complesse è il ruolo dei populismi e che la sinistra non penso si risentirà nel lasciare loro un tale antico compito. Vero però è anche che, al di la dei proclami e dello storytelling, risulta necessario dare risposte forti che siano caratterizzate da spregiudicata inventiva. Se il centrosinistra abdicherà al proprio ruolo di proporre tali soluzioni, i cittadini non staranno certo ad aspettare: i populismi sono pronti ad accoglierli tra le proprie braccia. Non conta se poi, nonostante i proclami, di risposte vere questi populismi non ne avranno (si veda la fuga della classe politica pro Brexit una volta che, nemmeno loro ci credevano, ha vinto il Leave). Il loro limite lo si vedrà solo dopo, quando oramai saranno al Governo e il centrosinistra, anzi la sinistra, avrà perso la possibilità di fare ciò per cui è nata, ossia rendere più giusto questo mondo. Il Partito Democratico ha il dovere di cambiare.

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