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Pd, se si rompe a sinistra ecco che succede

La stella di Renzi non rifulge più dopo la recente tornata delle elezioni amministrative. E’ presto per dire se stia tramontando, ma certamente è molto meno splendente. Cioè ha dimostrato di essere soggetta anche lui al logoramento cui ha sottoposto la vecchia politica (o, meglio, ceto politico) che Renzi ha inteso rottamare. Per certi aspetti è anche fisiologico: il potere, con buona pace di Andreotti, logora chi lo gestisce. Soprattutto in tempi di difficoltà economica e sociale come quelli che stiamo vivendo dall’inizio della crisi del 2008. Perché, a mio avviso, il punto è proprio qui: Renzi non ha aggredito non dico le cause, ma neppure gli effetti più eclatanti e devastanti della crisi. Si è solo limitato a ritinteggiare la facciata dell’edificio della politica, magari con colori sgargianti e attirando l’attenzione di tutti con grandi annunci: “Guardate gente, ora levo le incrostazioni dalla facciata! Io ho il coraggio di togliere questi colori spenti e corrosi dal tempo e su tutto passo una mano di colori forti, visibili da lontano e tutto sarà più bello e brillante!”. Sì, ma le fondamenta sono pericolanti; dentro il palazzo arredi e abitanti sono aggrediti dalla muffa e in continuo litigio fra loro e soprattutto l’amministratore del condominio non è in grado di far funzionare i servizi. Renzi arriva, cambia un po’ di amministratori e ci mette dei suoi amici e pensa così di sistemare le cose: ridipinge l’esterno, fa un po’ di rumore dentro, mette qualche amministratore fidato, ma non tocca la struttura. Fuori di metafora: niente che assomigli a qualcosa di serio per far ripartire la domanda interna e alleviare gli effetti disastrosi sul piano sociale della crisi; quando finiscono gli incentivi per le assunzioni del Jobs Act si fermano le assunzioni, che peraltro non hanno fatto il boom, e restano invece la pletora di forme precarie di lavoro. Spiccioli invece per chi è caduto o in bilico sul burrone della povertà e non riesce da solo a risollevarsi. Fermi gli investimenti pubblici, mentre corre il deficit pubblico. Distribuzione a fini elettorali di breve periodo di 80 €, ma niente sul cuneo fiscale, così che finito l’effetto scambio 80 euro-voto, mancano le risorse per interventi strutturali di natura fiscale.
Ecco, in sintesi estrema e brutale, a me sembra che questa sia la lettura del voto amministrativo: Renzi non illude o non affascina più e viene visto come parte di un sistema politico che non riesce a rispondere alle ansie, alle paure, alle necessità di una società in cui gli individui sono sempre più soli perché si sono allentate le reti di protezione e le organizzazioni sociali sono sempre più destrutturate e fragili. Il mondo della politica appare a questi cittadini sempre più un mondo iperuranio, lontano, alieno, regolato da leggi speciali che non valgono quaggiù, fra i comuni mortali. E il PD di Renzi viene percepito come consustanziale a questo mondo alieno; non ha più alcun elemento distintivo, di diversità con esso e in più ha tagliato volutamente i sempre più flebili collegamenti con il mondo di quaggiù. Per cui, per molti non vale più la pena partecipare al voto (il dato dell’astensione soprattutto a Napoli dove ha votato il 36% degli aventi diritto, ma anche Roma appena sopra il 50%) e per chi non vi rinuncia, si cerca comunque qualcuno che è o almeno si presenta come fuori da quel mondo politico ormai inviso ai più. Il problema è che Renzi e il PD rischiano di essersi tagliati i ponti dietro di sé. Infatti, se la narrazione renziana della rottamazione e di un incanalamento delle pulsioni antipolitiche dentro il suo movimento “rivoluzionario” non funziona più, il leader del Nazzareno non ha più frecce al suo arco, né può riprendere quelle che nel passato più o meno recente ha consentito ai partiti che hanno generato il suo di governare almeno a livello locale (giacché è bene non dimenticare che questa è stata la costante della storia repubblicana: la sinistra, pur esclusa per lungo tempo, dal governo del paese ha stabilmente governato le autonomie locali dando prova di una capacità di buon governo amministrativo).

E’ questo il caso, per me illuminante, della vicenda di Sesto Fiorentino, che per popolazione è comunque il 14° in Toscana (e per densità di popolazione il 6°). Qui il PD renziano ha voluto rompere scientemente con una esperienza politico-amministrativa e con soggetti politici e sociali che hanno garantito decenni di governo che ha dato frutti notevoli, tanto in termini di qualità di servizi erogati alle persone, quanto di gestione di problematiche complesse quali l’insistenza sul territorio comunale di infrastrutture di dimensione e significato regionale e nazionale che creavano impatti difficili sulla popolazione residente. Il nuovo corso renziano, interpretato da Sara Biagiotti, ha scelto di suonare la musica della rottamazione volendo fare piazza pulita di questa rete e cultura di governo locale e dei suoi interpreti e protagonisti (addirittura insinuando ipotesi di malgoverno finanziario dell’ente che non sono mai state dimostrate), pensando che così sarebbe stato più facile gestire trasformazioni del territorio e sociali drastiche e più significative. Errore strategico perché, in realtà, quella esperienza di governo che si è preteso di spazzar via aveva dato eccellenti risultati proprio nella gestione di problematici insediamenti infrastrutturali e produttivi, gestendo il consenso senza farlo deflagrare in aperto conflitto, proprio garantendo ai cittadini una qualità di servizi superiore alla media. L’elettorato si è preso la briga di spiegare brutalmente al PD renziano che la sua narrazione era sbagliata. Naturalmente influiscono sul risultato sestese fattori locali (l’opposizione la termovalorizzatore e all’aeroporto), ma è significativo che anche il voto di protesta è confluito a sinistra dichiarando, evidentemente, non solo una appartenenza ideale e finanche ideologica (che non trova più riscontro nel PD), ma anche riconoscendo a quella tradizione politica e di governo della sinistra la capacità di tenere insieme istanze radicali e cultura di governo. Infatti, a Sesto Fiorentino il Movimento 5 Stelle al primo turno si ferma al 10%, mentre è rilevante che il candidato della sinistra, Lorenzo Falchi, al secondo turno raddoppia i suoi consensi. E non basta a spiegare questo fatto la confluenza dei voti dell’altro candidato di sinistra, Maurizio Quercioli, i cui voti del primo turno sommati a quelli di Falchi farebbero 11 mila voti, mentre al ballottaggio lo stesso Falchi ne ottiene quasi 14 mila, a fronte di un calo complessivo di votanti fra il primo e il secondo turno di oltre 2.500 unità.

Ecco, dunque, il problema: il PD ha liquidato, nel giro di due anni, non solo oltre la metà dei suoi voti (passando da 14.800 nel maggio 2014 a 7.400 nel giugno 2016), ma anche una esperienza di governo locale che aveva tenuto per oltre mezzo secolo. Voti ed esperienza che sono stati, fortunatamente, raccolti dalla sinistra perché quella era la loro casa e che ora, da Sesto, ha l’onere di ricostruire e innovare un radicamento territoriale e un progetto di governo della complessità che, evidentemente, il PD renziano qui non ha saputo né concepire né proporre ai cittadini.

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