Lavoro

Poca crescita e senza lavoro. Un paese senza politica economica

L’economia italiana, in questo primo trimestre del 2016, è cresciuta dello 0,3% rispetto all’ultimo trimestre del 2015. A fine anno la crescita potrebbe attestarsi sull’1%, consolidando il cammino positivo avviato nel 2015 quando la crescita è stata dello 0,7%. Non ci sono dati analoghi sulla Toscana ma è assai probabile che le performances della regione, come oramai capita da tempo, restino migliori, anche se su ritmi di espansione ancora troppo contenuti.

Il commento di questi dati pone non poche difficoltà perché, se da un lato non possiamo non cogliere con qualche soddisfazione il fatto che l’economia torni a crescere, dall’altro restano vive le preoccupazioni per un’uscita dalla crisi che appare troppo lenta.

Il sentimento di soddisfazione è alimentato anche dal fatto che, se negli operatori si radica la percezione di essere entrati in una fase di ripresa, potrebbe generarsi un clima di fiducia in grado di sostenere scelte più coraggiose, autoalimentando in tal modo la ripresa. Come dire che nelle possibilità di ripresa di un’economia giocano anche fattori psicologici, difficili da percepire a priori, ma che una volta entrati in campo potrebbero generare effetti espansivi inattesi.

Le preoccupazioni nascono invece da un’analisi forse persino troppo realistica della realtà: (a) l’Italia resta il fanalino di coda tra i grandi paesi europei; (b) dopo aver perso dal 2008 ad oggi oltre l’8% del PIL, con una crescita attorno all’1%, ci vorranno circa 8 anni per recuperare il livelli di PIL perduti; (c) questa modesta crescita complessiva nasconde forti differenze territoriali, con un grave problema per il Mezzogiorno del paese che continua a restare in terreno negativo; (d) lo scenario internazionale non appare più così favorevole (crisi dei BRIC, difficoltà dell’Europa).

In questo contesto la questione più rilevante è quanto ci vorrà per recuperare i livelli di occupazione perduti: il numero di disoccupati è, infatti, più che raddoppiato e molti sono giovani che non riescono ad entrare nel mondo del lavoro. Inoltre, in questi anni è cresciuto il ricorso a CIG e a part-time (spesso involontario), per cui anche in presenza di ripresa non è detto che si assumano nuovi lavoratori. Infine, se si mette in conto il fatto che uno dei limiti riconosciuti al nostro paese era la bassa produttività, è verosimile che nei prossimi anni quest’ultima debba tornare ad aumentare. Con tutte queste condizioni il sospetto che una crescita dell’1% possa non essere sufficiente a far fronte al problema del lavoro è del tutto legittimo.

Ma vi è un altro elemento di preoccupazione, meno evidente, ma che ci dice molte cose sul tipo di impostazione che dovremmo dare alla politica economica.

L’attuale ripresa del ciclo è determinata soprattutto dal fatto che la domanda interna è tornata a crescere: la componente estera sta, infatti, fornendo un contributo negativo non perché le esportazioni non crescono, ma perché le importazioni crescono ancora di più. Siamo, quindi, in presenza di un evidente circolo vizioso: sappiamo da tempo che per alimentare la crescita non può bastare il contributo delle esportazioni; sono, infatti, in molti a sostenere che, senza un significativo contributo della domanda interna, difficilmente torneremo a crescere adeguatamente. Ma quale componente della domanda interna deve crescere?

A seconda dei casi può, infatti, accadere che la crescita della domanda interna, più che la produzione nazionale, vada ad alimentare le importazioni, vanificandone il contributo espansivo: questo sembra essere esattamente ciò che è accaduto in questi anni, quando si è puntato sulla crescita dei consumi.

L’insegnamento che proviene da queste dinamiche è che è certamente necessario aumentare la domanda interna, ma che occorrerebbe favorirne l’allocazione nei beni e servizi prodotti nel paese. Ovviamente questo non può essere fatto costringendo i consumatori a comprare beni italiani, ma può essere la conseguenza di risorse immesse non sui consumi, ma sugli investimenti, ad esempio nel settore delle costruzioni per opere di restauro volte a favorire il risparmio energetico, o per opere atte ad intervenire sull’assetto idrogeologico del paese. Sono questi tutti casi di interventi, utili nel lungo periodo, e che nel breve generano domanda a basso contenuto di import.

Si comprende bene come interventi di questo tipo, se vogliono produrre gli effetti sperati, devono poter essere avviati celermente per cui si pone il problema dei tempi per l’avvio delle operazioni, ma il loro effetto espansivo è sicuramente superiore a quello dei consumi. Questi ultimi, infatti, solo in parte alimentano produzioni nazionali; inoltre, in un periodo di deflazione, il dubbio che incrementi marginali nel reddito delle famiglie (come quelli generati dagli 80 euro e dalla detassazione della prima casa) vadano effettivamente ad alimentare i consumi resta del tutto legittimo; a meno che riguardino le famiglie più povere.

 

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