Bandiera Rossa1

Quale processo unitario può ricostruire in Italia una sinistra utile alle classi popolari

Un “imperativo”, un “corollario” e “cinque nodi strategici” necessari alla ricomposizione e alla ripresa della sinistra, ovvero considerazioni d’ordine generale sulle ragioni di una perdurante incertezza politica
Superare come Articolo 1-MDP davvero senza indugi l’incertezza politica estiva, siamo quasi fuori tempo massimo.

L’“imperativo”
Una lunga incertezza ha fatto perdere da luglio a settembre tempo prezioso ad Articolo 1-MDP e, di conseguenza, alla ricomposizione di una sinistra politica realmente utile al paese e alle sue classi popolari (in esse pongo, a evitare equivoci, anche quelle ex medie impoverite). Adesso, stando alle dichiarazioni di figure responsabili, l’incertezza è superata. Non posso che applaudire.
Inoltre, a rafforzamento della cosa, ho appena udito dalla tv che Giuliano Pisapia ha fatto gli auguri al nostro prossimo partitino del 3%, dall’alto di quel suo fenomenale 3,83% alla sua lista alle elezioni amministrative milanesi dello scorso anno. Uno 0,83% in più non è certo poco. Vai dove ti porta il cuore, Giuliano, e, davvero, tanti sinceri auguri da parte mia.
Per consolidare il superamento dell’incertezza è evidente che occorra avviare rapidamente un itinerario congressuale condiviso dal complesso delle organizzazioni di sinistra orientate alla costruzione di un soggetto politico unitario. Per quanto riguarda Articolo 1-MDP occorre avviare immediatamente un processo di propria organizzazione orientato a un miglioramento generalizzato del complesso delle sue pratiche sul territorio e sociali. Di più non aggiungo, le forme specifiche dell’itinerario unitario a sinistra e delle sue conclusioni sul piano strutturale (se un partito unificato sùbito o una federazione transitoria, ecc.) sono ovviamente da costruire attraverso discussioni unitarie. So per esperienza diretta come non si tratti di processi semplici, come so che se le intenzioni unitarie sono sincere le soluzioni si trovano facilmente. Suggerisco solo, sul piano operativo, di costruire una bozza di intenti e di programma molto precisa ma anche molto breve, un processo partecipato assiduamente dalla militanza di sinistra, un raccordo ideale stretto con tutta quella sinistra europea da un lato non settaria e non schizzinosa e dall’altro radicalmente emancipata, da sempre o da poco tempo che sia, da ogni inquinamento neoliberista. Insomma occorre che il futuro soggetto politico unitario della sinistra italiana somigli il più possibile al Labour di Corbyn. Se sarà così ce la faremo.

Il “corollario”
L’incertezza estiva è stata l’effetto non solo dell’attesa delle decisioni di Campo progressista ma anche l’effetto, proprio in quanto Campo progressista era stato eletto da Articolo 1-MDP come l’interlocutore primario e indispensabile, di una certa confusione sul posizionamento politico e su quello programmatico. Non si può pensarla altrimenti, data l’evidente e rilevante differenza di posizioni tra i due organismi. Dato, inoltre, il baratro tra la vocazione democratica di Articolo 1-MDP e quella monarchica di Campo progressista, ecc. Può, quindi, essere utile ragionarci sopra, e prima di tutto mettere un picchetto, in questo senso un “corollario”, a consolidamento del superamento dell’incertezza. Parimenti ragionarci sopra può essere utile alla prevenzione di attitudini sia al minimalismo politico che all’arroccamento settario.
A parer mio occorre anche smetterla con i pasticci lessicali, dato che rischiano di non essere solo pasticci lessicali ma di aprire a posizioni politiche incerte su terreni dove, invece, massima dev’essere la chiarezza. L’insistenza lessicale sull’intenzione di costruire un partito di “centro-sinistra” o di “sinistra-centro” allude, quali che siano le intenzioni degli autori, alla creazione di un partito che fatica a emanciparsi dalle posizioni mini-emendatarie e concretamente subalterne al neoliberismo proprie fino a pochissimo tempo fa della quasi totalità delle socialdemocrazie europee; alla creazione, dunque, di un partito che faticherebbe a emanciparsi da ciò che ha determinato il crollo nell’Unione Europea della presa sociale delle socialdemocrazie, vedi in ultimo quella tedesca. Di “centro-sinistra” sono parte dei partiti verdi, una serie di socialdemocrazie in genere in condizione confusionale acuta, ecc.; oppure sono schieramenti di partiti alleati, spesso utili. Insomma o si fa come Corbyn o non si va da nessuna parte.
Quindi è solo “dopo” (concettualmente) avere fatto proprio questo corollario, dunque aver chiarito che vogliamo costruire un partito effettivamente di sinistra, cioè su una posizione di sinistra, cioè radicalmente critico dell’esistente sociale, che assume significato valido e non invece minimalista e subalterno operare in modo anche duttile, cioè praticare obiettivi immediati, obiettivi parziali, politiche di coalizione, compromessi tra forze politiche diverse, partecipazione a governi locali di centro-sinistra, trattative su questa o quella questione con lo stesso governo in carica. Comportarsi così nell’attuale frangente è molto importante per quelle classi popolari, tremendamente impoverite e politicamente e culturalmente allo sbando, che vogliamo rappresentare e difendere.
Inoltre il corollario ci aiuta a comprendere come nella società si sia in salita e come ciò che ci aspetta è una lunga marcia.
Condivido, perciò, totalmente la formulazione proposta da Massimo D’Alema, recuperata a Togliatti, che vuole che l’obiettivo debba essere una sinistra riformatrice, non una sinistra “riformista” cioè, tradotto, subalterna. Condivido la formulazione di Enrico Rossi, che propone che l’obiettivo debba essere una sinistra rosso-verde. Condivido l’istanza metodologica e culturale pragmatica e concreta che queste formulazioni esprimono, ma anche il loro sguardo lungo sia dentro al passato che dentro al futuro.

Cinque “nodi strategici”

Quali, sempre a parer mio, i “nodi” di qualità “strategica” che al “corollario” vanno dichiaratamente saldati.

1) Il primo è quello del rapporto al neoliberismo: esso va apertamente, sistematicamente e totalmente identificato e contrastato in tutte le sue caratteristiche, pieghe e declinazioni. Si tratta di tutt’altro che di una teoria scientifica di politica economica, si tratta in realtà di un’ideologia a sostegno di obiettivi radicalmente antisociali ovvero, detto chiaramente, di un’ideologia tutta a sostegno di politiche economiche orientate al sistematico trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto della gerarchia sociale e, parallelamente, allo smantellamento politico, giuridico, ideologico di ogni capacità di difesa efficace da parte popolare. In questa prospettiva, cosa che è importante capire, possono essere usati sia i periodi di crescita economica sia le crisi.
La variante europea, “monetarista”, del neoliberismo è, inoltre, la peggiore possibile, imponendo essa, quali che siano le condizioni delle economie, politiche restrittive (il “rigore”) di bilancio, addirittura il suo (quasi mai tecnicamente possibile) pareggio: ciò infatti aggiunge al trasferimento di ricchezza verso l’alto una particolare ferocia delle operazioni antisociali. Ciò avviene usando a fondo, prima di tutto, le condizioni di libero scambio planetario imposte al pianeta negli anni ottanta e novanta dagli Stati Uniti e gestite liberamente dalla grande finanza speculativa e da qualche centinaio di grandi multinazionali a comando finanziario. Il fatto che l’economia si trovi in recessione, stagnazione, deflazione addirittura consente perciò al neoliberismo monetarista la moltiplicazione delle attività di rapina antisociale. Siamo qui neanche alla Scuola di Chicago, bensì a una regressione ideologica che risale alle teorie economiche a cavallo dell’Ottocento. Dunque, ancora, non importa per nulla al neoliberismo monetarista che le politiche di “rigore” portino a tempi lunghissimi di ripresa, alla sua fiacchezza, ecc.
Ma, venendo a noi, attenzione!: il contrasto alla ferocia antisociale e al carattere anti-economico del neoliberismo monetarista non deve farci rimuovere che è quella del neoliberismo “in generale”, tutto quanto, la realtà che va combattuta e rovesciata. Ed è stato qui, pur in modo opaco e sotto traccia, che ha operato un elemento decisivo di divisione non solo teorica ma molto concretamente politica tra Articolo 1-MDP e Campo progressista. I tentativi di quest’ultimo di ricostruzione di un rapporto cooperativo tendenzialmente organico tra sinistra e PD, il suo rifiuto di smarcarsi dalla maggioranza parlamentare, la sua posizione sulle elezioni siciliane, ecc., hanno significato proprio una posizione emendataria, ovvero minimalista, cioè l’incomprensione di quanto il neoliberismo “in generale”, non solo la sua piega monetarista, abbia comportato in termini di danni sociali ed economici. Si vedano a questo proposito dal lato di Campo progressista l’incertezza sui voucher, le dichiarazioni del tipo “i jobs act sono stati un errore”, quelle che in tema di sanità criticano i super-ticket ma dimenticano le liste di attesa come fattore esse pure dell’esclusione dell’80% degli anziani dall’ottenimento del complesso delle cure di cui abbisognano, ecc.
Un ragionamento analogo vale guardando al libero scambio planetario: esso pure ha moltiplicato la possibilità e l’efficacia nel nostro paese delle politiche antisociali dei governi.

2) Il secondo “nodo” è quello di come debba opportunamente porsi l’“essenza” effettiva del rapporto di Articolo 1-MDP alle classi popolari, e in esse, in specie, al mondo del lavoro dipendente e al suo potenziale organizzativo e di lotta tuttora in piedi, pur logorato. Riguardo a queste classi porsi come sinistra politica valida, utile, comporta (penso sempre a Corbyn) la rottura verticale con l’idea che la politica da praticare sia quella della compensazione di disoccupazione e precariato con il palliativo delle misure assistenziali. Non sia invece, dunque, l’unità tra, da un lato, la lotta politica intesa al rovesciamento antiliberista del modello economico (anche, va da sé, mediante la lotta per un reddito dignitoso: però non solo) e, dall’altro, la consegna alle classi popolari di un ruolo attivo ed egemonico nella gestione della società e di una prospettiva che guardi a trasformazioni democratiche e socialiste. Ma ciò richiede un’internità radicale, “essenziale”, antropologica, etica della sinistra politica alle classi popolari, non il suo porsi come illuminato e compiacente ente benefico sovrastante. Ma porsi come un tale ente è esattamente la filosofia di Campo progressista.

3) Il terzo “nodo” è se esista oggi in Italia (e nell’Unione Europea) un’area sociale rilevante definibile come “centro” effettivo, date, cioè, sue buone condizioni lavorative e di vita e conseguenti attitudini cautamente benevolenti verso chi stia peggio e, al tempo stesso, conservatrici in sede politica e culturale. Quindi se esista un’area sociale cui rivolgere da sinistra attenzione e una speciale disponibilità ad aperture di varia natura. Un tempo ciò ebbe la sua utilità politica: l’Italia aveva uno dei più consistenti (e ricchi) “ceti medi” d’Europa, e la politica delle sinistre portò a conquistarne una parte di tutto rilievo, soprattutto nelle regioni “rosse”, con largo beneficio generale. Ma da parecchio tempo quest’area risulta investita da radicale impoverimento, in tutta analogia alle classi popolari, e giunge così a confondersi con esse: ciò che ne ha annullato l’attitudine politica “centrista”, e in genere l’ha spostata sulla destra berlusconiana o populista. Insomma il “centro” politico benevolente è oggi poco più che un’invenzione dei nostri mass-media liberal-liberisti. Il suo residuo in realtà non è che un molto ridotto segmento di borghesia più o meno ricca.

4) Il quarto “nodo” è, ovviamente, quale rapporto della sinistra rispetto non a Renzi, non al governo Gentiloni, ma al corso politico e sociale di cui sono portatori. Esso non può che essere fondamentalmente antagonistico: essendo essi, anzi essendo oggi Gentiloni addirittura più di Renzi, si veda il trattamento barbarico dei migranti impostato dal ministro Minniti, le figure guida della realtà neoliberista e, sostanzialmente, monetarista italiana. Le figure guida della politica delle mance anziché della creazione anche da parte direttamente pubblica di posti di lavoro, del precariato a vita, delle pensioni di fame e accessibili solo in estrema vecchiaia, dell’idea che la ripresa economica possa essere rafforzata dal taglio orizzontale del prelievo fiscale, dell’incuranza di ciò che questo taglio significa per sanità, servizi sociali, trasporto locale, scuole, università, ricerca, trasporti, del loro passaggio a gestioni di tipo privatistico, alla mancanza dei finanziamenti necessari e all’imposizione del pareggio di bilancio, delle trivelle in luogo della tutela di agricoltura, paesaggio, acque, dell’idea di continuare ad affidare gli investimenti produttivi a gruppi finanziari e industriali privati e a fondi sovrani esteri anziché a programmi prima di tutto pubblici orientati a risanare, ammodernare, sviluppare razionalmente il modello industriale del paese e a ricostituirlo dove è stato annullato, nel Mezzogiorno e altrove. Per non parlare delle chiacchiere a vuoto e delle bidonate in tema di risanamenti del territorio, prontissimo intervento nei luoghi colpiti da terremoti e alluvioni, per non parlare dell’operazione antidemocratica che sta avvenendo a danno della composizione e della qualità della rappresentanza parlamentare, ecc. ecc.

5) Quinto “nodo”. Il fatto è che per operare efficacemente su tutti o quasi tutti i terreni indicati al “nodo” precedente occorrono grandi mezzi finanziari; quindi serve un incremento consistente dell’indebitamente pubblico; quindi occorre aprire un contenzioso con le autorità europee, Commissione Europea prima di tutto, non limitato a richieste di “flessibilità” cioè di mance, anche rischiando un aperto conflitto, anche coalizzandosi con altri governi europei. Giova rammentare come il rifiuto del contenzioso sia più forte dal lato del governo Gentiloni e dei ministri economici Padoan e Calenda che da parte di Renzi. Parimenti occorre proteggere la nostra economia (la nostra industria meccanica, il nostro agro-alimentare, il nostro made-in-Italy) dal saccheggio estero. Giova precisare come abbia niente a che fare una tale protezione con il protezionismo, come, invece, straparlano i media liberal-liberisti; si tratta al contrario di fare anche da parte italiana quel che correntemente fanno Germania, Francia, Spagna, ecc.

Non mi pare che Campo progressista i temi stessi cui fanno capo questi ragionamenti tenda a porseli, e mi pare, anzi, che neanche tenda a porsene di alternativi, magari sostenendo che sì un po’ di “rigore” dei conti pubblici occorrerebbe ma molto morbido, dato che a ciò ci impegnerebbe l’altezza del nostro debito pubblico, ecc. Ancor meno quindi Campo progressista ha in mente che solo un elevato indebitamento ben speso e portatore, quindi, di elevato sviluppo può consentirci (in seconda battuta) riduzioni del debito.

I fattori di fondo non economici ma culturali della crisi del rapporto tra sinistra politica e classi popolari.

Due i fattori:

1) Il primo fattore è dato da qualità, determinazioni e vissuti popolari della crisi sociale italiana (ma, è d’uopo aggiungere, dell’Europa mediterranea, di parte congrua di quella nordica e degli Stati Uniti). Comprenderla, essendo una crisi assai complicata, chiede che si risponda alla domanda seguente: se essa cioè risalga solo, essenzialmente, a una caduta delle condizioni di vita popolari causata da perdita di posti di lavoro, precarizzazione della condizione lavorativa, abbattimento dei diritti del mondo del lavoro, gigantesca disoccupazione giovanile e del Mezzogiorno, cioè risalga un po’ alla nostra storia e un po’ a trent’anni di neoliberismo e di libero scambio incontrollati, anarchici, ovvero totalmente dominati dalle convenienze di una ridottissima élites capitalistica mondiale e dai suoi partners cosmopoliti politici e intellettuali; oppure risalga pure (mi rifaccio a questo proposito a studiosi che se ne occupano da tempo) alla dissoluzione dei “mondi di vita” popolari e all’impossibilità di ricostituirli, poiché ogni tentativo in questo senso è da sùbito contrastato dalle condizioni sistemiche create da neoliberismo e libero scambio.

2) Il secondo fattore  è dato da sopravvivenze ideologiche nella sinistra (più o meno presenti in tutta Europa). Esse sono la coda di quello che fu lo spostamento in direzione neoliberista un trentennio fa delle sue élites politiche e intellettuali sia conservatrici sia liberali nonché, dopo più o meno una decina di anni, delle sue élites socialdemocratiche. Alle organizzazioni politiche di questa parte della sinistra nonché di quella liberale furono consegnati còmpiti di governo che da un lato continuavano a incrementare i diritti civili, di libertà e ambientali, cooperando con i relativi movimenti, e dall’altro procedevano allo smantellamento dei diritti sociali popolari, in particolare di quelli del mondo del lavoro, alle privatizzazioni del patrimonio pubblico, ai ridimensionamenti del welfare, agli smantellamenti delle imprese e dei servizi pubblici ecc. A mistificazione di questa resa fu rilanciata da un sistema massmediatico corrivo e manipolatorio e dall’intellighenzia liberal prosistemica la favola sette-ottocentesca della capacità del capitalismo, se lasciato correre in totale libertà ovvero secondo la sua natura bestiale, famelica e sociopatica, di garantire benessere alla totalità degli esseri umani.
Tali sopravvivenze ideologiche risultano ridotte a poco più che nulla nella sinistra italiana. Tuttavia anche questo poco più può risultare pericoloso. I tre pessimi mesi estivi che abbiamo vissuto hanno prodotto a danno soprattutto di Articolo 1-MDP disorientamenti, malesseri, abbandoni, inoltre hanno rafforzato gli impulsi settari dentro a formazioni minori della sinistra e, a sèguito di essi, le suggestioni a comporre liste elettorali separate. Occorre davvero correre da parte di Articolo 1-MDP in sede di dialogo con tutte le formazioni di sinistra e, soprattutto, di dialogo con Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza di Anna Falcone e Tomaso Montanari: protagonisti assieme a Massimo D’Alema (oltre che alla CGIL e a una quantità di associazioni e di figure di intellettuali) dell’unica grande battaglia politica vinta in trent’anni e più dalla sinistra italiana.

Gli effetti di separazione delle élites liberali e riformiste dalla realtà sociale creati da neoliberismo e libero scambio ingovernato.

Pankaj Mishra: Riporto qualcosa di più riguardo agli effetti, in quanto davvero enormi, perché anche politici, dell’adozione da parte delle élites cosmopolite occidentali liberali o liberal-riformiste della favola della capacità del capitalismo liberista di garantire benessere per tutti, da un saggio (tradotto dal britannico Guardian e pubblicato il 3 febbraio scorso da Internazionale) il cui autore è lo scrittore indiano Pankaj Mishra. Egli argomenta come tali élites debbano le loro recenti sconfitte negli Stati Uniti e in Gran Bretagna al non aver mai saputo (o voluto) registrare cosa si agitasse e venisse a comporsi nella testa delle relative classi popolari, colpite da crescenti “disuguaglianze economiche” e, negli Stati Uniti, anche “geografiche”. Queste élites, prosegue Mishra, sono state perciò prese di assoluta sorpresa sia dalla Brexit sia dalla vittoria di Trump; quanto a quest’ultima, dall’“enorme rabbia repressa” del proletariato bianco statunitense, fenomeno sino ad allora assegnato alle realtà “arretrate” di Medio Oriente, Nordafrica, Turchia, India, Filippine, Birmania, Polonia, Ungheria, ecc.
Mishra, poi, racconta come Paul Krugman dichiarasse, “la sera della vittoria di Trump”, che “le persone” come lui, “e probabilmente come la maggior parte dei lettori del New York Times”, non avevano “mai davvero capito in quale paese” vivessero. E ci racconta come l’élite liberale mondiale non fosse stata minimamente capace di intuire come la sua visione e le sue pratiche avessero totalmente ignorato gli enormi danni d’ogni tipo recati alle classi popolari da neoliberismo e libero scambio, cioè dal laissez-faire assoluto concesso dai governi occidentali alle forze fondamentali del capitalismo contemporaneo, parimenti avessero totalmente ignorato “fattori sempre presenti nella vita degli esseri umani: per esempio la paura di perdere l’onore, la dignità e la posizione, la diffidenza verso il cambiamento, la voglia di stabilità e familiarità”: quindi avessero determinato nella società le condizioni per un’“esplosione di forze incontrollate”. Ossessionati “dal progresso materiale”, inconsapevoli del fatto di premiare solo minoranze sociali, i membri di questa élite hanno ignorato la presa che “il risentimento esercita sui dimenticati”, parimenti come da sempre “le rivoluzioni” abbiano “dimostrato” come siano “i sentimenti e gli umori” a cambiare “il mondo”, poiché riescono in certi momenti a trasformarsi in “potenti forze politiche”.
Tra le inevitabili conseguenze di questa separazione tra élites liberali e classi popolari, l’entrata in crisi dagli anni novanta ed infine la semiscomparsa in tutto l’Occidente della “connessione sentimentale” (Gramsci) tra tali classi e le élites stesse delle maggiori organizzazioni politiche della sinistra, appunto per via della loro sottomissione al neoliberismo. Tra queste conseguenze, inoltre, l’incapacità crescente delle stesse maggiori organizzazioni politiche della sinistra, dei loro intellettuali, dei loro giornalisti di accorgersi di come le classi popolari occidentali, in termini più o meno ampi, in ogni caso significativi (preponderanti in Italia come negli Stati Uniti), stessero passando dall’accettazione di sistemi politico-istituzionali-culturali di tipo liberal-democratico o socialdemocratico storico alla critica aspra, all’odio e alla rabbia contro tali sistemi e contro le figure loro portatrici.

Gli effetti del binomio caduta delle condizioni materiali e distruzione dei “mondi di vita” tradizionali nelle classi popolari. 

Habermas: Dobbiamo a Habermas, già da prima del ciclo neoliberista (lo leggiamo ne La teoria dell’agire comunicativo, 1981), la tesi che il “sistema di relazioni sociali” generando il modo di produzione capitalistico ha espresso (tramite lo stato ovvero tramite governi tutori di questo modo di produzione) una sua autonomizzazione che è venuta via via dominando ogni elemento dei “mondi di vita” delle popolazioni e quindi frammentandone e distruggendone ogni elemento di specificità e di autonomia; agendo così, prosegue Habermas, in senso radicalmente anti-antropologico e dunque producendo tutta una serie di patologie sociali.
Quali. Intanto si tratta, sul piano della “riproduzione” dei processi di tipo culturale, della “rottura della tradizione”, della “perdita di senso” di rapporti e oggetti, della “crisi dei modelli di tipo educativo”, delle fratture intergenerazionali, dell’abbandono degli anziani. Determinati attori sociali, scrive Habermas, “non riescono più a coprire, con la loro riserva di sapere culturale, il bisogno di comprensione che si crea con le situazioni nuove”; quindi i loro “schemi interpretativi” da un certo momento in avanti non funzionano più. Inoltre sul piano dell’“integrazione sociale” si tratta dell’“anomia” di tali attori, della loro “insicurezza” sul piano della loro “identità collettiva”, anche di un loro senso individuale di “alienazione” e di frustrazione. Tali attori, prosegue Habermas, “non riescono più a coprire, con il patrimonio” dei loro “ordinamenti legittimi, il bisogno di coordinamento che si crea con le situazioni nuove. Le appartenenze sociali regolate in modo legittimo non sono più sufficienti”; inoltre la “riserva” di “solidarietà sociale” tende a “scarseggiare”. Ancora, sul piano della “socializzazione” si tratta pure di numerose “psicopatologie”, tra cui la “carenza di motivazione”. In tali casi, precisa Habermas, “le capacità degli attori” non appaiono “sufficienti a mantenere l’intersoggettività nelle situazioni pratiche” comuni, venendo a “scarseggiare la risorsa” di base costituita dalla “forza dell’Io”.

Precipitazione dunque di movimenti “populisti”, la loro declinabilità in più direzioni politiche.

Laclau: Guai a non aver intuito e non aver elaborato e affrontato in Occidente per tempo da parte delle maggiori sinistre una realtà popolare sempre più infuriata, guai ad aver continuato a rimuoverla, a insistere sull’illusione dei benefici universali del neoliberismo o, comunque, sull’illusione della sua emendabilità. I risultati via via sono stati l’impasse operativo, oscillazioni sempre più confuse, una crescente perdita di credibilità e di consenso, un crescente discredito sociale, la crisi verticale infine dei rapporti con le classi popolari, ivi compresa gran parte dello stesso proletariato sindacalmente organizzato, la consegna infine di quote ampie e crescenti di popolo al populismo di destra.

Attraverso quale itinerario. Come ha argomentato più volte lo studioso argentino di formazione gramsciana Ernesto Laclau, recentemente scomparso, analizzando le realtà da gran tempo populiste di tanta parte dell’America latina (se ne veda il saggio La ragione populista, 2005), è da considerare “populista” il complesso di quei processi soggettivi popolari e di quei movimenti politici che, nel quadro di una caduta generale della credibilità e del consenso sociale nei confronti degli assetti politici e istituzionali correnti, dovuta a corruzione, crisi economiche e sociali gestite da destre liberiste ecc., risultino decisivi nella costituzione ex novo o nella ricostituzione delle classi popolari in un agente o più agenti politici “popolo”. All’inizio tale caduta di credibilità e consenso porta alla frammentazione e all’auto-isolamento delle situazioni popolari soggettive, a loro oscillazioni e sbandamenti ecc.; poi però cominciano a determinarsi punti di riferimento e, con essi, richieste popolari più o meno estese e coerenti rivolte o a precedenti posizioni politiche alternative già in campo, ma marginali, o a nuove posizioni in corso di autocostruzione. E alla fine, indica Laclau, c’è il “salto” di qualità, determinato dall’iniziativa molto decisa di un “elemento lungimirante” della politica (indisponibile come tale a “recuperi” di posizioni politiche che nell’immagine popolare appaiano orientate alla cooperazione con il liberismo) e dal fatto, che ne consegue, della capacità di tale “elemento” presa carismatica sul “popolo”. Ovvero c’è il “salto” della precipitazione della gramsciana “connessione sentimentale” tra tale “elemento” e il popolo.
Sarà così tale “connessione”, con le sue emozioni, le sue evocazioni, i suoi miti, ad avere peso soverchiante dal lato populista del processo politico. Si constaterà così l’entrata in campo di partiti, governi, ecc. populisti di destra oppure populisti di sinistra. Di partiti, ecc. del tipo di quelli attuali di Polonia e Ungheria oppure del tipo di quello greco.

Renzi potrebbe tentare, al fine di superare le grandi difficoltà in cui è precipitato, di riposizionarsi adottando più elementi di populismo
Egli, cioè, potrebbe tentare una sintesi tra temi sia di destra populista che dell’ultraliberista Scuola di Chicago; fingendo, inoltre, che si tratti di una “svolta” a sinistra
Condivido l’opinione di Peppino Caldarola a proposito della grande difficoltà in cui Renzi versa nonché a proposito della possibilità che possa costituirsi, entro l’anno in corso o poco oltre, una maggioranza interna al PD determinata a mettere Renzi da parte, onde recuperare anche per questa via un consenso elettorale in caduta. Questo potrebbe suggerire un disastroso esito delle elezioni siciliane.
Però prima di dare per più che probabile che avvenga una tale messa rapida da parte di Renzi aspetterei di vedere sia nuovi sondaggi siciliani che sondaggi relativi a Lombardia, Lazio, ecc. In questo momento, in sostanza, ritengo più probabile – sbaglierò – la prosecuzione del controllo di Renzi sul PD. Non vanno sottovalutati gli strumenti organizzativi di cui egli dispone, tra cui il potere di decidere, anche grazie al Rosatellum, chi del PD (e dintorni) sarà eletto nel futuro parlamento. Renzi, inoltre, si appellerà alla parte di popolo e di base di partito che continua ad appoggiarlo, che non è per niente piccola. Inoltre le operazioni che egli ha in animo (ha semidichiarato da qualche tempo) sul versante europeo possono risultare efficaci (se riuscirà ad avviarle: cosa tuttavia al momento non scontata) in sede di recupero al PD di un po’ di consenso sociale, quindi efficaci anche in sede di recupero di credibilità dal lato personale. Un altro espediente, più recente, è la dichiarazione di Renzi, consentitagli dai comportamenti di Pisapia, di una prossima “svolta a sinistra” del PD.

La possibile sintesi populista-ultraliberista renziana.

Non va intanto escluso un possibile ausilio alla credibilità di Renzi e del PD della disponibilità (già in qualche misura praticata dalla Commissione Europea) a concessioni all’Italia più significative in sede di deficit pubblico, quindi di possibilità superiori di spesa dal lato del governo rispetto a quelle rosicate da Padoan, tra cui un accantonamento di fatto del fiscal compact per un periodo non breve. Esse possono essere consentite dal terrore in cui sono precipitati i fondamentali poteri europei dinanzi alla possibilità di uno sconquasso dell’Unione Europea creato da uno sconquasso politico e istituzionale italiano. A differenza (significativa) di Padoan (e Calenda), la cui subalternità sia politica sia in sede di teoria economica alla Commissione Europea è assoluta, quindi che si accontentano (vedi DEF) di un regalo di meno di 9 miliardi di incremento di spesa (11 di quei quasi 20 dichiarati come grande successo di Padoan dovranno andare a ridurre il debito pubblico), Renzi di queste cose se ne stropiccia, non solo perché non le capisce ma perché ha il problema della propria sopravvivenza politica. E’ probabile che dal lato tedesco si insisterà sulla necessità del proseguimento in Italia del “rigore” (non solo era illusoria l’attesa che a elezioni tedesche avvenute il governo si sarebbe aperto alle richieste italiane: ma l’entrata nel governo tedesco del Partito Liberale ovvero di un partito ultraliberista e l’affidamento a questo partito del ministero dell’economia dice che di “rigore” da parte tedesca si continuerà con ogni probabilità a parlare). Però è anche vero che Francia e Spagna non ne possono più delle pretese tedesche e che i loro governi premeranno sulla Commissione Europea perché il “rigore” venga accantonato il più possibile, e che la Germania di oggi è più debole politicamente di quella di ieri. Si vedrà.

Quali allora i contenuti del passaggio renziano di linea. Si tratta di un riposizionamento del PD su tre versanti. Si tratta cioè, primo, del già avviato recupero alla destra fascista o semifascista e dal movimento di Grillo del sadismo anti-migranti. Si tratta poi, secondo, dei significati correlati all’allargamento delle misure di sostegno al reddito a più larghe aree sociali in condizioni di miseria, sino a oggi estremamente ridotte e determinate solo da finalità propagandistiche e clientelari. E si tratta, terzo (cosa questa meno precisata, sparate renziane a parte, anche per via di riserve di Padoan, Calenda, Presidenza stessa della Repubblica), della minaccia di andare a uno scontro pesante con la Commissione Europea avendo a obiettivo fondamentale non la messa da canto ma l’archiviazione del fiscal compact e il ritorno al parametro, definito dal Trattato di Maastricht cioè all’origine dell’Unione Europea, del 3% come tetto massimo del deficit.

Perché questa (ipotetica) svolta è di destra e non di sinistra.

Giova, quindi, chiarire perché siano di destra populista nonché, in buona parte, anche neoliberisti questi indirizzi – sadismo anti-migranti a parte le cui intenzioni elettorali si comprendono da sé.
Prima facie le misure di sostegno al reddito di aree sociali in condizioni di miseria parrebbero più o meno di sinistra, sicché criticabili esclusivamente in ragione della loro esiguità. Si tratta, al contrario, di misure coessenziali al rifiuto di governo di misure che superino precarietà della condizione lavorativa, forme di supersfruttamento, mancanza di diritti sui luoghi di lavoro, e con ciò alimentino lo svuotamento del ruolo sociale e politico delle organizzazioni sindacali e stabilizzino il più possibile le difficoltà già enormi del mondo del lavoro organizzato di farsi sentire e di mobilitarsi.
Si tratta, tra parentesi, di misure storicamente di destra: furono elaborate dal liberismo statunitense (Hayek, ecc.) a partire addirittura dagli anni Trenta. Esso propose l’integrazione per mano pubblica del reddito di tutti quei membri delle classi povere che non riuscivano a raggiungere il livello di un reddito definito “di base” dallo stato “in cambio”, per così dire, della consegna della più totale libertà d’azione all’imprenditoria capitalistica nei riguardi delle forze di lavoro salariate, cioè “in cambio” della più totale libertà per essa di determinazione di salari e condizioni di lavoro così come di licenziare. In questa prospettiva il significato sostanziale del “reddito di base” era dunque di evitare che le classi popolari, mobilitate dalla miseria, si ribellassero. Si trattava pure, in altra prospettiva di ragionamento, di un complesso di misure orientate alla costruzione di un “blocco storico” della reazione sociale a egemonia direttamente capitalistica.

Gestiranno questa politica Renzi e Berlusconi? O la destra-destra? O i grillini? Ciò si vedrà. Vale per ora che Renzi ha in mente si presta a una svolta a destra di assoluta radicalità della nostra situazione italiana.
Parimenti la minaccia di uno scontro aperto con la Commissione Europea, ecc. ha come obiettivi lo spostamento tutto sull’Unione Europea della colpa del malessere e della rabbia delle classi popolari, la consegna a una battaglia mediatica furibonda di Renzi, anziché alla ripresa economica mondiale, del merito in Italia della ripresa produttiva e dell’occupazione, lo spostamento sempre sull’Unione Europea della colpa del livello risicatissimo e socialmente inessenziale di questa ripresa.
Ancora, tutto questo serve a Renzi, PD, anche governo Gentiloni ad argomentare politiche di riduzione orizzontale del prelievo fiscale come necessarie all’incremento di ripresa, occupazione, ecc., coprendo così il favore reso da questa riduzione al risparmio speculativo e a banche che continueranno a negare il credito a famiglie e a imprenditoria minore. E servirà loro a evitare di intervenire in termini minimamente adeguati sull’attuale sgangheratissimo “modello” economico complessivo del paese, sul disastro della sanità pubblica, della scuola, della ricerca, su quel fiscal compact che blocca le pubbliche amministrazioni, sul precariato di massa, sulla disoccupazione di massa, sul disastro del Mezzogiorno, ecc. ecc.

Foto di copertina: http://s.marketwatch.com/public/resources/MWimages/MW-FK245_red_fl_ZG_20170411155150.jpg

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