referendum-costituzionale1

Referendum: che vinca il sì o il no avrà perso la politica.

Quando si discute di riforme strutturali e si considerano le premesse e le conseguenze della stagione referendaria, si parla spesso di crisi della democrazia. Ma la sola parola “democrazia” può significare una molteplicità di cose e per questo è necessario aggettivarla sempre. Ad esempio, non è in crisi la “democrazia procedurale”, cioè l’esercizio del voto che si istanzia nell’infilare la scheda nell’urna quando si è chiamati a farlo (non lo è almeno nella maggior parte dei paesi occidentali).
Gode di assai peggiore salute, invece, la “democrazia sostanziale”, cioè l’esercizio del controllo degli eletti da parte degli elettori, l’organizzazione del consenso su base stabile e non meramente elettoralistica. Tale esercizio è reso sempre più difficoltoso dal processo di atomizzazione della società, ma anche dallo spostamento dei centri di potere dalla sfera politica a quella economica. Il sistema finanziario ha sussunto nelle sue maglie i centri decisionali cruciali per l’influenza che esercitano sulla collettività, e quasi nulla in termini di modifica del reale è rimasto in potere dei governi democraticamente eletti. Da qui deriva la crisi della social-democrazia: la dialettica capitale-lavoro risulta oggi pesantemente sbilanciata a favore del capitale. Lo fa anche in virtù delle politiche attuate da quei partiti che, pur dicendosi appunto socialdemocratici, hanno accettato la narrazione neoliberista della deregolamentazione del sistema finanziario, degli sgravi fiscali ai ricchissimi e alle multinazionali, della privatizzazione dei beni comuni e della ritirata dello Stato dal campo economico. In questo nesso si istanzia, allo stesso modo, anche la crisi della liberal-democrazia: il capitalismo finanziario globalizzato ha talmente eroso la classe media che oggi le liberal democrazie occidentali sono a rischio tenuta perché non ci sono più le condizioni per aggregarsi in corpi intermedi e nella società civile, cioè in quegli attori collettivi che vigilano sul potere centrale e che organizzano il malessere sociale, consentendone uno sbocco istituzionale e con esso la tenuta dell’ordine politico.

L’antipolitica è un fenomeno che sorge e prospera proprio all’intersezione della crisi della liberaldemocrazia e di quella della socialdemocrazia. Da un lato infatti si impernia nella convinzione che chiunque venga eletto non farà gli interessi degli elettori e pertanto che i politici siano tutti uguali; uguali nel senso di interscambiabili fra loro. Convinzione confortata da trentennali scelte politiche a sinistra che miravano a qualificare questa parte come “il volto umano” del neoliberismo e niente di più, finendo per confonderla con l’altra. Dando così adito alla vulgata secondo la quale non esisterebbero destra e sinistra, vulgata nella quale a perderci è innanzitutto la tenuta del sistema socialdemocratico, poiché nella dialettica capitale-lavoro è il secondo che ha bisogno di essere organizzato e di distinguersi in quanto “partito” per rivendicare i propri interessi.
D’altro canto l’antipolitica si nutre anche del fallimento del sistema liberale. I liberali classici credevano che nessuna democrazia potesse funzionare senza una costituzione (valori condivisi) che fungesse da protezione per le minoranze dalla “dittatura della maggioranza”, cioè dalle scelte prese dai vari esecutivi eletti con il principio una testa un voto. Credevano che il potere, se lasciato libero, si espanda senza ritegno alcuno, e che l’unico modo di arginare questa espansione fosse la creazione di altri poteri, al fine di generare una situazione di equilibrio (pesi e contrappesi) nella quale i poteri si limitino e controllino reciprocamente. Essi credevano fosse necessario pagare dei politici di professione per rappresentare i cittadini nelle istituzioni, poiché questi ultimi non avevano né la voglia né la possibilità di occuparsi degli affari pubblici, presi come erano nelle proprie questioni private e lavorative. L’antipolitica sorge laddove questa classe di rappresentati si mostra inabile al proprio compito, cioè la buona gestione della cosa pubblica, laddove i poteri invece che controllarsi reciprocamente si accordano e laddove il patto sociale alla base delle carte costituzionali si rompe nella realtà prima ancora che nelle leggi.

Il punto sembra quindi essere che quando i politici e la politica smettono di fare gli interessi dei cittadini, smettendo di garantire pace sociale e benessere diffuso, essi risultano essere irrimediabilmente inutili; così come spese sprecate sembrano gli stipendi e i benefit per mantenerli nell’esercizio del loro mandato. Questo non dipende dal loro numero, né dall’entità dello stipendio ma solo dalla loro utilità, dalla funzione sociale che essi esercitano o non esercitano.

È in questo preciso scenario che si inserisce la riforma costituzionale e il referendum attraverso il quale gli italiani si esprimeranno in favore o contro le modifiche apportate al testo. Il referendum si inserisce al crocevia delle crisi delle diverse accezioni di democrazia per questioni di merito e di metodo.
Iniziando dalle seconde:
Il referendum, previsto dalla costituzione in caso di mancato raggiungimento di una soglia consistente di voti favorevoli alla modifica del testo in parlamento, si inserisce nella crisi della democrazia sostanziale. In termini democrazia procedurale infatti i cittadini sono regolarmente chiamati ad esprimersi ma, proprio come nel caso della Brexit, diffusa è la sensazione che questa chiamata alle urne sia spot e che per il resto del tempo (oltre che sulle materie che davvero interessano i cittadini) non si possa incidere in nessun modo nella determinazione degli indirizzi politici del governo. La diretta conseguenza di questa sensazione è la possibilità che il referendum si trasformi in un voto “contro” a prescindere, e che sarebbe stato così anche se il Governo non lo avesse personalizzato sulla persona del Presidente del Consiglio. Il soccorso al Governo che viene da Confindustria, dall’ambasciatore USA e dalla Merkel, che auspicano la vittoria del Sì per mantenere la “stabilità”, non fanno altro che rafforzare l’idea che il voto del Sì sia un voto per l’establishment e l’Italia che ce la fa, mentre il No sia il No di tutti coloro che rifiutano questo schema. Da quando “stabilità” e “governabilità” fanno rima con austerità, licenziabilità e precarietà, è quantomeno ragionevole, considerare che esista una fetta di paese per la quale l’instabilità sia comunque preferibile alla situazione odierna. I fronti del Si e del No sono così compositi e disomogenei al loro interno perché si è innescata una dialettica “alto vs. basso”, che è una forma di scontro politico deteriore: segno delle peggiori derive post-democratiche, è un ritorno ad uno stadio quasi pre-politico nel quale lo scontro si misura sull’asse “gente vs. establishment” e non “destra vs. sinistra” né “conservatori vs. progressisti”.

Vi sono poi delle questioni di merito che collocano la riforma e il referendum nel più ampio scenario di crisi della democrazia rappresentativa, e se ne possono individuare tre, partendo da tre macro-argomentazioni del Governo a favore della riforma:
1.La riforma snellirebbe le procedure legislative, consentendo di “fare in fretta”
2. La riforma consentirebbe di tagliare i “costi della democrazia”
3. Attraverso il combinato disposto con la legge elettorale la riforma aiuterebbe a far conoscere con chiarezza il vincitore del turno elettorale la sera stessa delle elezioni.

1. L’idea che la democrazia debba essere “veloce” è figlia dell’idea che il parlamentarismo, ottenuto al prezzo di lotte sociali anche aspre contro la monarchia in tutta Europa, sia da superare. La storia repubblicana italiana insegna tuttavia che tutte le grandi riforme progressiste sono state fatte da governi di larghe intese, formati in parlamento e da discussioni parlamentari anche accese (basti pensare alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, all’istituzione delle regioni, alla legge sul divorzio, ecc.). Si chiede, pertanto, agli elettori un voto per accelerare una pratica di decisione rallentata oggi non dall’assetto istituzionale ma dalla sola mancanza di volontà politica e di capacità di chiudere accordi. Cioè quella capacità che dovrebbe essere prerequisito per diventare classe politica e dirigente.
2. Si chiede di votare per un Senato che sarà composto da persone elette per altri incarichi istituzionali (consiglieri regionali, ecc.), poiché con questo meccanismo vengono risparmiati i soldi dei loro stipendi, risparmio che si somma con quello ottenuto dalla riduzione del numero dei senatori. Delle due l’una: o i senatori servono, e allora è necessario che siano eletti per fare solo quello, ed è giusto siano pagati per farlo, o non servono e allora è del tutto inutile mantenere la camera alta dello Stato. L’argomento dell’abolizione dei politici è rischioso perché quando una classe dirigente si mostra propensa ad abolire se stessa, o parte di se stessa, mostra solo più chiaramente ciò che i cittadini già sanno: essa è superflua. Infatti, quando i politici sono utili, le loro campagne elettorali vengono finanziate spontaneamente dalle persone più comuni e umili (vedi Sanders e Corbyn) e la loro attività è solo la punta dell’iceberg di un’organizzazione sociale che li sostiene (vedi Partito Comunista Italiano).
3. Lo statista o è tale o non è. La classe politica che forma l’attuale maggioranza ha riformato larga parte della Costituzione e modificato la legge elettorale, ossia riformato i valori fondanti del patto sociale su cui si basa la Repubblica e altresì le regole del gioco democratico con il quale tale patto si invera e rispetta. Chiunque nutra sufficiente rispetto per il Governo e le personalità presenti nelle istituzioni non può avere dubbi sul fatto che abbiano eseguito la loro opera riformatrice avendo in mente il risultato delle due modifiche congiunte. Tale combinato disposto non è infatti antidemocratico, come taluni sostenitori del No si ostinano a ripetere, ma è illiberale: esso infatti genera una situazione nella quale una forza che abbia, ad esempio, il 15% di consenso reale (cioè considerando l’astensione) possa vincere il ballottaggio e guadagnare il controllo del potere legislativo (tramite il premio di maggioranza), il potere esecutivo e con qualche soccorso (autonomie, senatori di nomina della maggioranza, defezioni), anche nominare il Presidente della Repubblica (garante del potere giudiziario). Tale meccanismo rende assai più difficile il verificarsi di quella situazione di equilibrio fra poteri che si sorvegliano a vicenda a cui si accennava sopra, rendendo impossibili gli “inciuci” in parlamento – cioè la normale formazione di un governo di coalizione – ma rendendo assai probabile una gestione monocolore delle istituzioni.

Il rinvio della sentenza di costituzionalità da parte della Consulta sull’Italicum, così come la giravolta del Movimento Cinque Stelle che si dichiara improvvisamente a favore del proporzionale e delle preferenze, non cambiano le carte in tavola della propaganda referendaria: il disegno complessivo della riforma sacrifica la rappresentatività per l’efficienza, la discussione per la brevità e la separazione dei poteri per l’efficacia, ma la cosa più preoccupante è che un’intera classe politica di governo utilizzi questi argomenti senza accorgersi di star così certificando la propria superfluità e inettitudine. Se è vero che bisogna governare da soli e non è necessario conoscere le istanze delle altre parti sociali e tentare di armonizzarle quanto più possibile, allora siamo in presenza di una classe politica che sottintende che i politici possano rispondere solo ai loro elettori e non al paese intero. Se è vero che bisogna far “in fretta”, allora non servono lo studio e l’approfondimento, pertanto siamo in presenza di una classe politica che si dà dell’ignorante o che ammette che i politici possano esserlo. Ma gli eletti che fanno solo i propri interessi elettorali e i politici ignoranti sono tutti inutili e tutti uno spreco. Se chi governa per reperire risorse taglia il finanziamento pubblico ai partiti, le province e gli stipendi dei senatori invece di far sì che partiti, consiglieri di tutti i livelli e senatori lavorino per la crescita economica e il benessere dei cittadini, si rende evidente che il problema non sia il numero di parlamentari nelle istituzioni, ma quali parlamentari vi dimorano.

Per questo motivo, qualunque sia l’esito della consultazione referendaria, avranno perso innanzitutto i liberali, i socialisti e coloro che credono nella nobiltà della politica, che è scienza architettonica, che è esercizio pratico di idee normative e che è terreno privilegiato di scontro e incontro fra individui, interessi e parti della società. Una classe dirigente di inadeguati, in larga parte scelti da dirigenti che hanno sempre prediletto l’obbedienza alla qualità, ha reso la politica italiana poco meno di una lotta fra “il basso” e “l’alto” e poco più una corsa a chi colleziona più scontrini delle cene di partito. La sola idea di impegnare un paese in recessione economica, con una crisi umanitaria dei profughi alle porte e la disoccupazione giovanile al 40%, in un dibattito del genere per mesi, fa risuonare forte e chiaro il dantesco: “ahi serva Italia, di dolore ostello”.

Commenti