È sorprendente l’effetto che fa riavvolgere il nastro delle parole di Berlinguer. Il nastro concreto, quello che, nelle vecchie cassette registrate, contiene la sua voce dei comizi nelle piazze di tutta Italia. Si sentono i rumori della folla che si raduna, gli inni di ordinanza, la presentazione della dirigenza sul palco. Si capisce anche che nessuno apprezza particolarmente questi preliminari rituali, scanditi per lo più da voci monotone a cui la gente non presta orecchio. E sembra quasi di sentire un corale sospiro di sollievo quando viene annunciato al microfono il compagno Berlinguer.

Dicono gli studiosi che “coerentemente con la tradizione linguistico-didascalica di matrice marxista”, il linguaggio di Enrico Berlinguer era “ordinato e disadorno, dominato dall’uso della forma impersonale, con marcata assenza di toni interattivi ed emozionali verso l’uditorio, al quale il segretario del PCI espone le proprie tesi simmetricamente disposte in una controllata argomentazione a catena di tipo tecnico-scientifico secondo la successione causa-effetto”. (Paola Desideri, Linguaggio della Enciclopedia dell’Italiano 2011)

Si sentiva, dietro questo periodare sobrio e pulito, una preparazione puntigliosa, una riflessione documentata, una attitudine allo studio approfondito, la ricerca meditata di espressioni appropriate, pertinenti, comprensibili. Del resto per un dirigente politico parlare e scrivere era ed è il fulcro del lavoro: “Che cosa può fare un dirigente politico? Parla, scrive, esorta…”, diceva Berlinguer.

Se quella “oggettività enunciativa” era lontana da un politichese assai diffuso all’epoca, gergo quasi iniziatico e largamente incomprensibile, quel modo di parlare e di scrivere, quel modo di porsi davanti alla gente, ai militanti, agli elettori, è anche assai distante dal linguaggio politico che osserviamo oggi, in cui le caratteristiche predominanti sono assolutamente diverse: semplicità ( e semplificazione), velocità, ritmo, emotività, solo per dirne alcune. Tuttavia quello che suggerisce l’ascolto del “nastro concreto” è che Berlinguer aveva in qualche modo costruito e messo a frutto una rara combinazione di concezione razionalista della politica e di carisma. Riusciva in quello che i latini definivano “fidem facere et animos impellere”, cioè convincere razionalmente e persuadere emotivamente.

Anche il suo lessico era assai definito e peculiare. Chi lo ha analizzato ha notato che Il vocabolario berlingueriano abbondava “di parole e sintagmi chiave come analisi, solidarietà, rigore morale, intelligenza delle cose, senso dello Stato, espressioni che indirizzano appunto all’osservazione obiettiva dei fatti e dei problemi, la cui soluzione impegna il politico non in vista di scopi individuali, ma per contribuire alla «costruzione di un nuovo assetto del mondo» (Desideri).

Alcuni termini da lui stesso coniati sono entrati nella storia: compromesso storico, eurocomunismo, austerità, questione morale. Parole datate? Sì. Eppure… Pensiamo alla “questione morale”, alla lotta alla corruzione che egli indicava, in un articolo de Il Contemporaneo del dicembre del 1981, come “la principale garanzia di mantenere in vita la possibilità di un reale rinnovamento; la premessa indispensabile per poter riavviare qualcosa di serio, di pulito, di nuovo nella vita politica italiana”. Oppure riflettiamo su quelle che egli riteneva essere le doti necessarie per il militante e il dirigente politico (le elencò nel suo comizio conclusivo della Festa dell’Unità di Tirrenia, il 19 settembre dell’82): “la fedeltà ai propri ideali, lo spirito di sacrificio, il disinteresse, la coerenza morale, la tenacia, la disciplina, la compattezza, la forza di reagire agli avversari, alle mode, alle difficoltà”. Concetti antichi, parole desuete. Ma in epoca di corruzione dilagante, di partiti liquidi, di trasformismo impudente, non è forse quello che vorremmo chiedere oggi, ancora oggi, a chi fa politica?

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