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Riflessioni sul primo duello televisivo Hillary Clinton-Donald Trump

Un confronto senza esclusione di colpi, quello fra Donald Trump e Hillary Clinton, che si sono affrontati lunedì sera per il primo di tre dibattiti presidenziali. I temi più caldi sono stati gli accordi di libero scambio, la guerra in Iraq, il rifiuto del candidato repubblicano di pubblicare le proprie dichiarazioni fiscali e l’uso della candidata democratica di server privati per le e-mail. Trump ha mostrato impazienza e inesperienza politica, ha interrotto continuamente la Clinton, le ha parlato sopra, ha fatto allusioni al caso Monica Lewinsky, ha lasciato inevase le domande sul mancato pagamento delle tasse. La Clinton, dal canto suo, lo ha spinto più volte a difendere i suoi precedenti attacchi alle donne e al presidente Obama, lo ha ripreso per la scarsa veridicità delle proprie affermazioni, lo ha accusato di nascondere informazioni sui suoi debiti con Wall Street e le banche estere.

Quasi tutti i resoconti danno Hillary Clinton come la vincitrice del dibattito: preparata, informata, seria, ironica, costantemente calma e padrona di se stessa di fronte agli attacchi sconclusionati dell’avversario. Tuttavia, al netto dei commenti più entusiasti, il dubbio che serpeggia in alcune analisi è se questo possa bastare a far guadagnare voti alla candidata democratica. Negli ultimi sondaggi, pubblicati precedentemente al dibattito, la Clinton e Trump sono dati pari o con uno stacco, a favore della prima, di un punto percentuale.

Trump ha consenso e raccontare storie di paura su come sarebbe pericoloso, se diventasse presidente, avere il suo indice vicino al “nuclear button” non serve (di questa strategia elettorale scriveva domenica Wolfgang Münchau sul Financial Times, in un articolo dal titolo “Le storie di paura non fermeranno le insurrezioni populiste”.

Così come non servono analisi simili a quella del New York Times di domenica, il giorno in cui, in due editoriali, ha rispettivamente endorsato pubblicamente Hillary Clinton e reso ancora più esplicita la propria battaglia contro Trump. In un articolo dal titolo “Perché Donald Trump non dovrebbe essere presidente”, la testata americana rifiuta di ammettere che le sfilze di americani non hanno “proiettato un fine più alto” su Trump, ma che sono attratte da lui proprio per via delle sue “accuse false e vergognose” dei suoi “insulti personali”, del suo “nazionalismo xenofobo” e del suo “sessismo senza pudore”. Il rifiuto ad ammettere l’attrattiva del razzismo alla base della cultura politica del candidato repubblicano – scrive Hamid Dabashi su Al Jazeera  – rappresenta la condizione storica che ha portato a Trump stesso; nonostante ciò, le élites politiche si rifiutano di vedere il problema o di ammetterlo pubblicamente, rinunciando così ad affrontarne le cause. “Potrei mettermi nel mezzo della strada e sparare a qualcuno senza perdere consensi”, ha detto Trump, all’inizio della sua campagna, quando il suo consenso iniziava a crescere. Sempre secondo Dabashi, Trump si è sottovalutato: se dovesse sparare a qualcuno, probabilmente diventerebbe ancora più popolare.

Si parla spesso della politica post-verità. Sul New Statesman, Nicky Woolf scrive un pezzo dal titolo “Hillary Clinton potrà anche aver trionfato su Donald Trump, ma importa davvero?”. L’analisi spiega come, sì, Hillary Clinton avrà vinto anche il confronto, perché è più preparata, più calma, più autorevole, ma “ciò che è reale conta sempre meno rispetto a quello che sentono le persone”. E quello che sentono le persone, la rabbia, potrebbe essere perfettamente incarnato da Donald Trump.

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