Sacchetti_Plastica

Sacchetti a un centesimo: contributo all’ambiente o alla grande distribuzione?

L’intervento di Rossella Muroni (coordinatrice della campagna elettorale di LeU) su Huffington Post in merito alla polemica dei sacchetti biodegradabili a pagamento (http://www.huffingtonpost.it/rossella-muroni/la-norma-sui-sacchetti-bio-e-giusta-e-il-ministero-dellambiente-che-non-sa-fare-il-suo-lavoro_a_23322525/) offre preziosi strumenti di lettura e interessanti commenti sui limiti di una politica ambientale improvvisata, tutta orientata a neutralizzare imminenti procedure europee di infrazione.
Nella legge di conversione del DL Mezzogiorno (GU 12 agosto 2017) il governo ha messo al bando i sacchetti di plastica ultraleggera (quelli utilizzati per frutta e verdura), imponendo l’uso di sacchetti di materiale compostabile e biodegradabile, con un minimo di materia prima rinnovabile che va dal 40% del 2018 al 60% del 2021. Il decreto impone altresì che le buste di plastica ultraleggera non possano essere vendute a titolo gratuito, e che il loro costo debba comparire sullo scontrino.
Come afferma Muroni, e con la precisa intenzione di sorvolare su qualsiasi ipotesi complottista, l’intervento del governo per bandire l’uso dei sacchetti di plastica (seppur ultraleggeri) e sostituirli con sacchetti biodegradabili è certamente condivisibile. Si tratta di un intervento di regolazione del mercato che stimola una domanda qualificata di prodotti a basso impatto ambientale (i sacchetti bio), incentivando indirettamente l’offerta degli stessi, con un aumento del valore aggiunto prodotto da un’economia più sostenibile.

Tuttavia, la vicenda ha portato alla luce alcune questioni su cui vale la pena soffermarsi, al fine di non ridurre il vivace dibattito che si è creato intorno ad essa, ad una rincorsa di slogan su fake news, amici degli amici e spocchiosi conti in tasca al consumatore.
Il primo tema su cui riflettere è politico e di comunicazione. Sorpresi dalle polemiche per possibili vantaggi che alcune ditte produttrici vicine a Matteo Renzi avrebbero potuto ricavare da questo intervento normativo, il Segretario del PD e l’on. Stella Bianchi, prima firmataria dell’emendamento al DL Mezzogiorno, che introduce la normativa sui sacchetti bio, si sono giustificati dicendo che si tratta di un adeguamento ad una direttiva europea.
La direttiva europea di riferimento, però, prescrive altro e cioè prevede che gli stati membri si impegnino a ridurre l’impiego di buste di plastica (leggera) con due tipi di interventi, adottabili in alternativa o congiuntamente:
la fissazione di una quota massima procapite di buste di plastica (ivi comprese quelle di plastica ultraleggera);
l’impegno affinché, dal 31 dicembre 2018, le buste di plastica non siano fornite gratuitamente dai vari punti vendita. Su questo punto si esplicita che “le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse da tali misure”.

La prima conclusione da trarre è che nessuna imposizione europea ha motivato la misura adottata, anzi, la direttiva europea consentiva proprio di escludere il punto su cui si è intervenuti e niente stabiliva sull’obbligatorietà di pagamento di borse biodegradabili e compostabili.
Su questo punto vi è un ulteriore elemento di confusione nella legge di conversione del DL Mezzogiorno, che impone il divieto di gratuità per le buste di plastica ultraleggere, non specificando che lo stesso debba valere per le buste biodegradabili e compostabili. Dunque, cosa e perché stiamo pagando (per ora) 1 centesimo? Per un prodotto veramente biodegradabile o per una busta di plastica più facile da smaltire?
Credo che su questo punto sia necessario un chiarimento del governo, almeno per precisare l’ambito di applicazione e l’efficacia delle misure adottate, anche rispetto alla direttiva, per evitare che alla beffa del centesimo si aggiunga il danno di un’eventuale procedura di infrazione.

Chiarito questo punto, ne rimane tuttavia un altro e cioè come si debbano ripartire i costi di questa innovazione ambientale. Il decreto impone che le buste non siano gratuite, ma non pone limiti al prezzo applicabile. La grande distribuzione ha, al momento, adottato una linea di prezzo minimo, diciamo simbolico, di 1 centesimo. Mantenendo questo prezzo e assumendo che, secondo quanto riportato da studi di settore (http://www.ansa.it/canale_ambiente/notizie/rifiuti_e_riciclo/2018/01/02/sacchetti-di-plastica-bio-fra-4-12-euro-lanno-a-famiglia_1f651d9d-597e-4826-ac4f-9784b59d5fd1.html), la spesa media per famiglia dovrebbe aggirarsi sui 4,5€, nel 2018 spenderemo per sacchetti di frutta e verdura poco meno di 75 milioni di euro. Una cifra complessivamente rilevante che, in misura più o meno simile, fino ad oggi veniva conteggiata tra i costi di produzione della distribuzione. Vale forse la pena di ricordare che l’introduzione dei sacchetti di plastica ultraleggera sono stati una “conquista” per la grande distribuzione che ha potuto superare un sistema di vendita basato sul preimballaggio di materiale ovviamente deperibile, riducendo sostanzialmente, attraverso il “fai da te” del consumatore, i costi di imballaggio, di magazzino, di personale per la prezzatura e la sistemazione degli alimenti preimballati, e i costi di deperimento della merce (se in una confezione di mele, ce n’era un marcia, restava invenduta tutta la confezione e non la sola mela). All’epoca, senza dubbio il costo del sacchetto, a fronte di questa importante innovazione di processo, doveva apparire ridicolo.

Oggi, però, apparentemente a seguito di una innovazione ambientale di cui andare fieri, il costo viene esternalizzato al consumatore, che spinto da senso civico e buona fede, non si accorge di avere di fatto assorbito un costo di produzione, il cui importo è soggetto alle leggi di mercato su cui lui (il consumatore) non ha la forza di fare pressione e chi l’avrebbe (il grande distributore) non ha più l’interesse di farlo, perché quel costo può tranquillamente scaricarlo al consumatore. Non solo, il distributore potrebbe, con il tempo, anche fare un ricarico su quel sacchetto. Il divieto di poter riutilizzare il sacchetto chiude il cerchio e garantisce una domanda inelastica al prezzo.

Ho provato a fare una piccola ricerca di mercato ma non è facile comparare i costi di una busta in plastica ultraleggera con quelli dell’equivalente compostabile. Credo che sarebbe opportuno comprendere questa differenza, per capire come vengono suddivisi tra distribuzione e consumatori i costi dell’innovazione e della sostenibilità.
In conclusione, si è parlato in questi giorni di tassa sui sacchetti bio per spiegare impropriamente quanto sta avvenendo. La somma stimata di 75 milioni di euro, ma il principio varrebbe anche se fossero la metà, non andrà infatti allo Stato, ma a dei privati, che la porteranno a riduzione dei loro costi di produzione e a sostegno dei loro profitti.
Se fosse stata una tassa, l’avremmo potuta far confluire in un fondo, magari cogestito dalle istituzioni (governo, regioni…), dalle associazioni ambientaliste, dalle imprese green, dai sindacati, per sviluppare una transizione culturale ed economica verso una sistema produttivo a minore impatto ambientale, per finanziare ricerca applicata, percorsi scolastici, formazione sui luoghi di lavoro sul ciclo di produzione e smaltimento delle risorse, per progetti di cooperazione internazionale finalizzati al risparmio delle risorse.
Stiamo parlando di pochi euro a testa, ma in un caso, l’attuale, si trasformano in un lauto sussidio alla grande distribuzione, nell’altro in una politica di sviluppo e trasformazione sostenibile.
Sono scelte: da un parte gli incentivi al mercato, che poi determina, secondo dinamiche proprie, gli equilibri, dall’altra una politica di riconversione ecologica.

Foto Ansa

Commenti