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Se c’é qualcosa da dire ancora, se c’é qualcosa da fare

Il primo turno delle elezioni amministrative è andato male per il PD. Forse non malissimo come dicono gli avversari, ma è lo stesso segretario Renzi ad aver ammesso di non essere contento dei risultati. E a poco vale dire che il PD tiene rispetto alle politiche del 2013, perché Matteo Renzi si è sempre identificato come l’uomo del 40,8% alle europee ed è su quel dato che dobbiamo fare i paragoni. Non è facile trovare un filo conduttore nazionale analizzando elezioni locali: candidati poco empatici, screzi di paese, problemi molto contingenti. Però in questo caso ci sono dati generalizzabili che permettono di individuare tratti comuni per il PD a livello nazionale. L’idea che ne ricavo è che mai come in questo momento il doppio ruolo di Matteo Renzi, premier e segretario, è un danno per tutti, lui in primis. Per arrivare a sostenerlo faccio alcuni passi indietro.

La ditta bersaniana, che riportò nel PD una linea sostanzialmente ulivista dopo il tentativo della vocazione maggioritaria di Veltroni, ebbe la capacità di ricucire larghe alleanze, particolarmente convincenti nei livelli locali, specialmente alle amministrative 2011 sulla scia dei movimenti referendari e arancioni. Un momento di grande dialogo nella sinistra, con l’idea di utilizzare lo schema della famosa “foto di Vasto” per battere lo storico nemico Berlusconi. Quest’idea è stata negata nei fatti dalla “non vittoria” alle politiche del 2013, frutto di una campagna elettorale sbagliata per i contenuti troppo appiattiti sull’esperienza del governo Monti e il candidato premier Bersani incapace di incarnare il desiderio di cambiamento dell’elettorato. La svolta è arrivata con Matteo Renzi alla guida del PD, al grido di rottamazione e innovazione. Grido recepito dal 40,8% degli elettori che, anche sulla scia dei sempre ben accetti 80€, si recarono alle urne per dare fiducia al “nuovoPD.

VOTI LIQUIDI – Ricordo una serata di analisi dei flussi elettorali di quelle elezioni, in cui Gianluca Passarelli a Reggio Emilia ci spiegò che quei voti erano estremamente liquidi e di non darli per scontati in vista delle regionali che ci sarebbero state da lì a qualche mese, cosa che puntualmente si è verificata. In effetti dopo le europee l’unica rottamazione messa in campo da Renzi è stata quella nei confronti della minoranza interna al partito, dei sindacati e della dialettica con aree culturali e sociali storicamente affini alla sinistra. Nell’azione di governo il jobs act e la “buona scuola” hanno prodotto piccoli miglioramenti nella situazione occupazionale generale, a scapito della riduzione dei diritti dei lavoratori, senza comunque riuscire a incidere sensIbilmente sui dati sulla disoccupazione, soprattutto giovanile. Di fatto la più grande riforma portata a termine è stata quella costituzionale, che però non pare interessare molto la pancia dell’elettorato in un momento in cui la preoccupazione principale è trovare lavoro e poter pensare a un futuro dignitoso per sé e i propri figli. Nel frattempo il partito, scalato e usato come trampolino per l’incarico di governo, è stato lasciato in gran parte a se stesso, con larghe aree del paese in cui continuano a comandare i vecchi dirigenti, a cui è bastato il cambio di corrente per rimanere in sella.

IL PD SOLITARIO E MUSCOLARE NON VINCE – I dati pubblicati oggi da YouTrend, a firma Andrea Piazza, ci dicono che se nel 2012 il PD correva in alleanza con la sinistra nel 41% dei comuni e in solitaria nel 17%, nel 2016 è passato rispettivamente al 25% e 57% con una netta inversione di tendenza. Parallelamente calano i successi elettorali in questi comuni. Dunque se la scelta tendenzialmente solitaria e muscolare del PD renziano perde la spinta innovatrice capace di renderlo un partito “pigliatutto”, rimane una scelta che è isolamento politico solo dannoso. D’altra parte, sarebbe incoerente rispetto alle scelte del governo Renzi, l’idea di alleanze a sinistra sui territori, con quei partiti o movimenti che sono opposizione nazionale.

IL DOPPIO RUOLO DI RENZI, UN PROBLEMA – La risposta che mi sono dato è che in questo momento il doppio ruolo di Renzi renda impossibile qualsiasi dialettica politica con chi non sta al governo con lui, relegando il PD a un ruolo di maggioranza solo relativa (quando va bene…). E in uno schema di doppio turno si traduce nell’avere tutti contro al secondo turno, perché un partito che ha deciso di porsi in un’ottica di scontro post-identitario e post-ideologico non ha credibilità nel chiamare la propria ormai ex-area di riferimento al voto utile contro qualcuno o qualcosa.

Se Renzi ha a cuore la tenuta del PD si decida a lasciarne la guida, tenendo quella del governo, e permettendo al partito di porsi in un’ottica dialettica con l’esecutivo, condizione necessaria per poter dialogare e trovare mediazioni nei territori con chi si riconosce nel centrosinistra, ma non nel governo nazionale. Faccia una cosa da rottamatore, dia spazio a qualcuno che si occupi davvero del partito, della formazione di una classe dirigente nuova e preparata e che sappia dialogare con le altre forze politiche e sociali del paese. I candidati sindaci, renziani e non, che affronteranno il ballottaggio sembrano averlo già capito quando negano di voler programmare iniziative con il premier da qui al 19 Giugno. Questi temi vanno affrontati al più presto perché richiederanno molta discussione ed elaborazione, per essere utili nel medio-lungo termine. Quindi sotto con i ballottaggi per recuperare i voti uno ad uno, ma non lasciamo troppo tempo prima di riprendere in mano il partito.

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