Pubblichiamo un articolo di Pietro Folena sul voto che uscirà sul prossimo numero di Infiniti Mondi, bimestrale di pensieri di libertà, diretto da Gianfranco Nappi

1.
Il 4 marzo del 2018 chiude in modo definitivo una storia.
Ha ragione chi, a caldo dei commenti del voto, ha detto che siamo entrati nella Terza Repubblica. Non so, sinceramente, se sarà quella dei “cittadini”, oppure una Weimar all’italiana, fragile, in cui paure e insicurezze prendono forme politiche sconosciute.
La storia che si chiude è quella del PCI, e delle sue successive mutazioni verso una formazione politica senz’anima. Se il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, tra il ’92 e il ’94, con la tempesta di Tangentopoli, aveva conosciuto la scomparsa della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista, e degli altri partiti minori nati dopo il 1948 (PRI, PLI, PSDI); e con questa scomparsa aveva, poi, conosciuto la nascita di formazioni geneticamente sconosciute – come il grande partito televisivo e quello territoriale e localistico – ; e aveva, infine, fatto degli eredi del PCI, in concorso con la Margherita, il perno del sistema democratico, ora la tempesta della crisi economica, delle nuove diseguaglianze e dell’impoverimento del Paese, ha portato quella sinistra ad una sconfitta senza precedenti. I dati sono impietosi. La somma di Democratici di Sinistra e Margherita – e la coalizione dell’Ulivo – è stata sempre intorno al 30% (toccando il 33% con la nascita del Partito Democratico), salvo che nelle ultime politiche quando l’esplosione del fenomeno 5S portò il PD, che da quella somma era nato, al 25,4%. Ora il PD è al 18,4% e Leu al 3,4%. Se si guardano i voti in assoluto, il crollo è ancora più evidente: l’Ulivo aveva 16 milioni di voti nel 96 , e l’Unione (con Rifondazione) 19 milioni nel 2006, il PD di Veltroni 14 milioni, e Sinistra Arcobaleno 1 milione e centomila, il PD di Bersani 10 milioni, quello di Renzi alle europee 11 milioni, e il PD di Renzi il 4 marzo 7 milioni! Liberi e Uguali prende in assoluto gli stessi voti di Sinistra Arcobaleno. Dodici milioni di elettori in meno rispetto al 2006, quando Prodi vinse con l’Unione. Un popolo.

2.
Il divorzio tra sinistra e popolo non si è consumato solo nella stagione renziana.
E’ stato un processo lungo, in cui alla metamorfosi sociale e antropologica della società italiana, ha corrisposto un progressivo ritiro della sinistra dalla società e dai territori nelle istituzioni, concependo sé stessa solo come strumento elettorale e di potere. L’emergere di una questione morale che attraversa il partito che aveva fatto della legalità e della lotta alla corruzione una bandiera, segnala quanto questa forza non infiammi più alcun animo. Il voto nel Mezzogiorno è lo specchio più limpido di questo processo: un PD vieppiù notabilare e familistico, l’assenza di grandi, e persino di piccole politiche meridionalistiche, l’aggrapparsi al 4 marzo, come ultima spiaggia per una gioventù espropriata del proprio futuro, ai 5S e al reddito di cittadinanza.
D’altra parte il voto, come e peggio di quanto era successo nel 2008, con la fallimentare esperienza di Sinistra Arcobaleno, racconta come non abbia alcun futuro un progetto alla sinistra del PD che nasca dall’alto, da una scissione del ceto politico e con l’esplicito intento di garantire il seggio parlamentare a un ceto politico chiuso, e sempre uguale a sé stesso, privo di un profilo ideologico e valoriale definito, senza alcuna presenza né presa nei territori, e infine senza alcuna apertura a chi è fuori dalle élites politiche.

3.
In un recente saggio, a proposito del processo avvenuto nella sinistra italiana dopo il 1989, ho parlato di evaporazione.
Essa è stata il prodotto ad un tempo dell’inaridimento culturale e ideale del programma della sinistra – sempre più tecnocratico, preoccupato di piacere a Bruxelles e alla finanza globale, sempre più gestore di un meccanismo immodificabile – e di una visione deterministica (una sorta di grande giustificazionismo storico) ereditata dalla matrice culturale del PCI. Occorre aggiungere, alla luce della sconfitta bruciante del PD, che ha superato ogni pessimistica previsione, che il dominio personale di Matteo Renzi e del suo gruppo, ha bruciato ogni possibile ripiegamento (se davvero possibile) nelle vecchie casematte della sinistra. L’Unità è chiusa, e il suo marchio, come addirittura il suo archivio fotografico, sono nelle mani di un costruttore milanese. Le feste dell’Unità sono da alcuni anni ridotte a piccole fiere aziendali. Gran parte delle vecchie sezioni e case del popolo sono state chiuse, vendute, trasformate. Un discorso a parte merita la CGIL, fieramente antirenziana, e ancora – come l’Anpi, come l’Arci – aggrappata alle bandiere della propria storia: la quale candidamente, per bocca della sua segretaria generale, ammette che gran parte degli iscritti al sindacato vota Lega o 5S. Si potrebbe osservare che, al di là dell’autonomia sindacale – non è un fatto nuovo il voto dei metalmeccanici lombardi della Fiom per la Lega, così come i tessili della Marzotto, protagonisti di lotte radicali, che negli anni ’70 votavano Democrazia Cristiana -, la CGIL, nel suo gruppo dirigente assai vicina a Liberi e Uguali, non svolge più una funzione culturale e educativa fra i suoi iscritti. Per carità di patria non parlo dell’orientamento culturale di Confesercenti e Cna, e ancor meno dell’ “evaporazione” di gran parte dei principi mutualistici nella cooperazione e nei suoi strumenti finanziari, come l’Unipol.
È un mondo intero che non c’è più. Così si è giunti alla grande questione di oggi: il divorzio tra popolo e sinistra, sia nella sua versione senz’anima, sia in quella più radicale.

4.
Épater les bourgeois – spaventare i borghesi -, era uno degli effetti del grande sommovimento del 1968, di cui in queste settimane ricorre il cinquantenario.
Oggi, les bourgeois, siamo noi, questa sinistra che si é addormentata nella globalizzazione neoliberale, e che non ha visto crescere i nuovi grandi soggetti del capitalismo digitale, a partire dalle piattaforme che hanno rivoluzionato e stanno rivoluzionando la vita, il lavoro, le aziende, la distribuzione, la democrazia. Non ha visto il lavoro tornare a condizioni di sfruttamento e di incertezza ottocentesche, se non talvolta, e non solo nei paesi in via di sviluppo in cui sono state allocate tante produzioni, di schiavitù.
Google, Facebook, Amazon, Apple, Netflix, e così via, sono i nomi dei nuovi padroni del vapore. Hanno stravolto le leggi e gli statuti del lavoro nelle democrazie nazionali, e i fragili accordi sovranazionali.
Oggi la politica per difendersi sceglie la strada sovranista e protezionistica, cercando di trumpizzarsi, e di difendere il vecchio sistema e vecchi equilibri. Ma è una strada contro la storia, che può condurre dalle nuove guerre commerciali a conflitti armati, perché pensa di fermare i nuovi treni a vapore digitali.
Oggi il grande tema, parafrasando Carlo Marx nel Manifesto, con il grido “proletari di tutto il mondo unitevi”, è quello di un socialismo umanistico globale, che riparta dall’analisi e dall’organizzazione del lavoro e dei diritti delle persone. Che riparta, come suggerisce la Laudato sii mio Signore di Francecso, dalla vita delle persone (si è parlato di biopolitica in questi anni), da un’idea pubblica, di ricostruzione della credibilità dello Stato con un massiccio intervento per orientare e correggere l’economia, per combattere le diseguaglianze, per promuovere i beni comuni, liberi dal dominio del mercato, e con essi la condivisione e un nuovo senso di comunità. Questo è socialismo nuovo.

5.
Noi non possiamo essere spaventati – épatés – dal fatto che il popolo si contrappone a questa deriva del capitalismo mondiale.
Lo fa scegliendo le strade che incontra. Al Nord, e in larga parte di quelle che furono le regioni rosse, sceglie la strada della chiusura: l’odio per l’altro, l’immigrazione rappresentata come la fonte di tutti i problemi, il sovranismo, la flat tax – accompagnata da una singolare richiesta di avere più servizi, non si sa pagati come -. Al Sud, e nelle grandi metropoli centromeridionali, sceglie la strada di chiedere più Stato, più pubblico, più protezione, coi 5S, in forme ancora confuse. Paradossalmente, e diversamente da quanto ho letto in questi giorni, appare più regressivo il voto settentrionale di quello meridionale, più aperto invece al mondo. Ma in questa Italia divisa in due, con la sinistra bourgeoise a fare da spettatrice, c’è una sorta di nemesi del 68.

6.
Che fare?
L’errore più grave sarebbe di chiudersi nei propri recinti (un pò miseri e malridotti), facendo finta di nulla. Se Leu si trasforma in un partitino controllato dai suoi eletti, e se il PD in nome di una tregua post-elettorale balbetta, il risveglio la mattina delle possibili prossime ravvicinate elezioni anticipate sarà assai più amaro di quello non felice del 5 marzo. E vorrei dire agli ottimisti, che interpretano il bel successo di Nicola Zingaretti come il rilancio potenziale dell’Ulivo, che non si possono rimettere indietro le lancette della storia. Quella dell’Ulivo è una storia chiusa .
Proverei a seguire i consigli di alcuni uomini saggi, come François Mitterand (“se decidessimo di recidere le nostre radici, ciò sarebbe il gesto suicida di un idiota“), che a sua volta riprendeva un pensiero di Victor Hugo (“Fate come gli alberi: cambiate le foglie ma conservate le radici. Cambiate le vostre idee, ma conservate i vostri principi….“).
L’impressione è che in questi lunghi vent’anni, e anche negli ultimi mesi, i principi siano stati trascurati, se non negati, e le idee non siano state rinnovate.

Occorre partire dalle nostre radici – i principi antichi -, costruire idee nuove e soluzioni nuove che parlino al bisogno inconsapevole di sinistra che oggi esprime il popolo, dare vita a pratiche comunitarie e partecipative, con un nuovo partito socialista e del lavoro.
Suggerirei a Leu di dar vita ad una costituente delle idee da convocare sulla base di una tavola di principi su cui fondare l’agire politico. Di costruire in modo aperto uno statuto di partecipazione e di codecisione, che parta dall’incompatibilità – com’era nelle vecchie forze politiche della sinistra storica e soprattutto nel PCI – fra funzioni istituzionali e direzione del partito. Che raccolga la spinta antielitaria e antiverticistica che c’è nel voto del 4 dicembre del 2016 e che è stato meglio interpretato da altri.
Questa Costituente delle idee della sinistra del XXI° secolo dovrebbe essere aperta agli altri, cominciando dal PD e dalla sua crisi, e ai movimenti, alla società, al mondo cristiano che guarda alla sfida di Francesco, a tanti giovani che vogliono partecipare.
La mia generazione, con uno spirito di “restituzione” di quello che ha avuto dalla storia della sinistra, deve offrirsi come riserva di esperienza e di sapere volto a formare e far crescere una nuova classe dirigente: nuova anche per età, ma soprattutto per la capacità di rappresentare, di dar voce , di non riprodurre le solite élites, di “essere” popolo. Una sinistra meno bourgeoise, una sinistra popolare e del lavoro.

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