La Borsa non è più quel luogo, visto nei film, dove si compra e si vende, urlando, azioni, obbligazioni o materie prime. Oggi le negoziazioni avvengono tramite le reti di computer, resi sempre più “intelligenti” con algoritmi complessi che reagiscono istantaneamente, e nella gran parte dei casi automaticamente, di fronte a qualunque atto o fatto rilevante.
Sempre più si comprano azioni senza avere i soldi e si vendono azioni che non si hanno: sono le operazioni allo scoperto. Si compra a termine sperando che quando sarà il momento di pagare l’azione valga di più.
Sono vere e proprie scommesse, i futures, la forma più diffusa di derivati; la Borsa in questo caso si comporta come le sale corse dei cavalli, dove si punta sul vincente o anche sul perdente.
I miliardi di transazioni che si realizzano nelle borse formano la “speculazione”. Se per ipotesi tutti scommettono che il grano scenderà di valore, avremo un ribasso molto forte, con buona pace degli agricoltori. Facendo un esempio reale, chi nei mesi scorsi ha scommesso sul rialzo dei prezzi petroliferi, cioè chi ha comprato futures sul petrolio, ha guadagnato molto.
Come detto, in Borsa si negoziano anche obbligazioni e titoli di Stato (o titoli sovrani). Come per le azioni e i beni (le commodities) la speculazione opera sulle aspettative.

Mi soffermo sui titoli di Stato, di grande interesse per chi segue la politica, in quanto le cedole pagate a chi li sottoscrive rappresentano una delle tre voci più importanti della spesa pubblica (le altre due sono gli stipendi dei pubblici dipendenti e le pensioni).
Si tratta di 66,5 miliardi pagati nel 2016 e di poco meno nel 2017. Il calo, malgrado l’aumento continuo del debito pubblico – oggi attorno a 2.300 miliardi – è dovuto alla politica di tassi zero, attuata dalla BCE col suo programma di acquisto di titoli. Comprando titoli, la BCE ne fa salire il prezzo, facendo guadagnare chi li detiene (le banche in primis); col prezzo che sale, scendono i rendimenti fino a zero, o anche sotto zero per i BTP o equivalenti europei di più breve durata.
Parlare di titoli di Stato e di prospettive sui tassi di interesse – e chiudo con la spiegazione, utile solo a chi è digiuno di nozioni di finanza – è importante per gli effetti sul bilancio pubblico. Un punto percentuale in più o in meno di costo per interessi vale infatti circa 22 miliardi; non sono 23 perché poco più di 100 miliardi, di quei 2.300, sono banconote a zero interessi.
Di un aumento dei tassi si parla da tempo, ma solo da qualche giorno il rendimento del Bund a 10 anni è salito allo 0,75% (dalla metà o anche meno di poco tempo fa), mentre i Treasuries USA hanno toccato il 2,8%. Finora i movimenti sono stati controllati dalle banche centrali, ma ulteriori aumenti sono probabili per i motivi che seguono.
Negli USA la riforma fiscale del Presidente Trump arriva in un momento di espansione dell’economia; in Germania gli accordi di coalizione tra CDU e SPD potrebbero produrre una maggiore spesa pubblica, dopo anni di avanzi di bilancio. Tutto ciò darà forza all’inflazione, finora sotto l’obiettivo del 2%.

La disoccupazione europea e americana è scesa molto e quella giapponese è ai minimi storici.
Con la bassa disoccupazione, in quei paesi iniziano trattative salariali. In Germania, i sindacati chiedono un aumento del 6% delle retribuzioni per quasi il 20% dei lavoratori ed aumenta il sostegno politico alla crescita dei salari. In Giappone, si parla di aumenti di almeno il 3% delle retribuzioni.

Inoltre, la crescita dei paesi emergenti e i prezzi delle materie prime più alti stimolano l’inflazione.

La Cina è stata, finora, uno degli elementi chiave della bassa inflazione mondiale. Questo perché i prezzi alla produzione diminuivano, spingendo al ribasso i prezzi delle merci a livello globale. L’impatto è stato amplificato negli anni scorsi,quando il renminbi, la moneta cinese, si è fortemente svalutato. Ora il renminbi si sta rafforzando, aumentando i prezzi delle merci cinesi.

Cresce il prezzo del petrolio, ma l’aumento non si sente in modo uguale ovunque. Non cresce in Europa data la forza dell’euro, ma aumenta in Giappone e negli USA spingendo l’inflazione.

Il canale del credito ha ripreso a funzionare sia in Usa sia in Europa, il che dovrebbe sostenere l’inflazione. Come rilevato dalla BCE, si prevede un aumento dei crediti nel 2018. La riattivazione del credito bancario è importante: oltre il 60% delle piccole e medie imprese europee si affidano alle banche per il finanziamento e generano oltre l’80% dei nuovi posti di lavoro.

Fondamentale sarà la posizione della BCE. L’Eurozona è cresciuta del 2,5% nel 2017 (record del decennio) e forse farà di più nel 2018. Quando l’inflazione sarà prossima al 2% la BCE spingerà per un graduale ritorno dei tassi di interesse alla normalità.
Chi ha comprato titoli sovrani negli ultimi 10 anni ha quasi sempre guadagnato, sia come interessi sia dalla loro rivalutazione. Col ritorno dell’inflazione le vendite faranno ridurre il valore delle obbligazioni e aumenteranno i rendimenti: negli USA sta accadendo proprio questo.
L’aumento degli interessi e la lunga corsa delle borse di tutto il mondo, potranno indurre chi ha investito in azioni a monetizzare i guadagni, (prese di beneficio) spostandosi, ad esempio, su un comodo Treasury USA a due anni, che oggi rende il 2%.
Queste vendite, in mercati estremamente reattivi, sono la causa dei forti cali delle borse mondiali cui stiamo assistendo. Un calo positivo se si limiterà a sgonfiare la bolla speculativa presente, un grosso problema se dovesse innescare ribassi generalizzati.

L’Eurozona, con un quadro politico rassicurato dal governo di coalizione in Germania (sempre che le elezioni in Italia non portino a disastri) ha tutto per restare un’area solida. L’aumento dei tassi ci sarà, ma, se avverrà con un restringimento degli spread rispetto ai titoli tedeschi benchmark, i conti pubblici, anche dei paesi “periferici” come l’Italia non ne soffriranno troppo.

 

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