LeU-Neve

Una primavera orientata al freddo, ma anche un’occasione per riflettere e ripartire (dalle fondamenta)

La tornata elettorale ci restituisce un quadro di risultati che, per seguire una vecchia massima, non può che essere analizzata con il pessimismo dell’intelligenza, coniugato ad un sano ottimismo della volontà.
Il vento che sta provocando gelate nelle diverse latitudini del pianeta, spira ed investe anche l’Europa, prima o poi non poteva far sentire i suoi morsi anche nel nostro Paese, la cui causa scatenante va addebitata all’aumento esasperato, esponenziale, ingiustificabile delle diseguaglianze, sia economiche sia sociali.
Tra le tante insofferenza esplode e si generalizza un clima di rancore e di rabbia. Gli italiani sono andati ai seggi per dare una lezione ad un intero sistema, quello che si era affermato agli inizi degli anni ’90, dopo la fine della prima Repubblica.
In oltre vent’anni, infatti, i diversi gruppi dirigenti che si sono susseguiti al governo del paese, hanno dato cattive prove. Hanno ridotto, fin quasi ad annullare gli spazi di democrazia reale e di partecipazione democratica, dando vita a partiti, raggruppamenti e movimenti ispirati ad una logica di personalizzazione estrema, hanno offerto spettacoli indecenti di degenerazione; hanno prodotto pessime legislazioni; hanno promesso soluzioni mirabolanti cui sono seguite altrettanto delusioni, provocando risentimenti, sdegno e malessere.
Era naturale che, di fronte a leader improvvisati, chiusi in un egocentrismo senza confini che, nei comodi salotti del talk show, o nei meandri del sottobosco politico-clientelare, descrivevano un’Italia immaginaria, utilizzando e manipolando dati e benevolenze mediatiche a proprio favore per alimentare narrazioni che non corrispondevano all’Italia delle sofferenze, del degrado e delle esclusioni, si determinasse una situazione di incomunicabilità, se non di distacco e frammentazione che il panorama post voto ci descrive con palmare evidenza

Un genitore che, in un Mezzogiorno dove la disoccupazione è un dato endemico, che perde il lavoro e non può garantire un futuro alla propria famiglia o un giovane che dopo aver studiato è costretto a lasciare la propria terra piuttosto che un pensionato che rinuncia alle cure perché non può pagare i ticket come fa a sintonizzarsi con il chiacchiericcio, con parole prive di senso e di credibilità, pronunciate da esponenti politici che sono percepiti sempre più un corpo estraneo, da espellere, da combattere, da sconfiggere.
E’ questo il contesto ed il brodo di cultura che genera l’anti-politica, che alimenta vecchie e nuove forme di populismo, che produce delega, indifferenza, disaffezione.
Non è facile coniugare solidarietà e sicurezza nei paesini tranquilli del sud, dove fioriscono strutture di assistenza ai migranti, che determinano affari per pochi e sfruttamento per chi li assiste, cosi come non è facile, al nord, far pronunciare parole di solidarietà a famiglie che assistono a gravi fatti di cronaca.
Se lo Stato non è in grado di garantire accoglienza, integrazione ed ordine, si moltiplicheranno raggruppamenti che promettono di respingere, rimpatriare e disseminare razzismo e xenofobia.
Le persone in carne ed ossa hanno accumulato una forte diffidenza per il linguaggio, spesso vuoto ed astruso, utilizzato dal politico di turno, senza fare più distinzioni di colore, di appartenenza, di coerenza, di eticità.
I giovani del sud, disperati e delusi, il cui futuro viene loro proposto come scenario di crescita e sviluppo ma senza occupazione, hanno ragione nel ritenere chi il reddito di cittadinanza sia una misura concreta. Loro non capiscono cosa siano i numeri per le coperture finanziarie. Si chiami reddito di cittadinanza o di inserimento o di altro ma si spera in una risposta che apra ad una speranza.

Un dato che, drammaticamente emerge e che viene quasi sottaciuto, è proprio la mancanza di un radicamento sociale e territoriale della politica e delle forme attraverso cui essa si esercita.
Il dato più impegnativo che ci consegnano le elezioni del 4 marzo è la più grave sconfitta del centro-sinistra e della sinistra dal dopoguerra.
Il voto ha cambiato la geografia del paese. Le cartine presente in tv con macchie di colori gialli e bleu mi rattristano profondamente. In anni ben più difficili, almeno nella parte centrale della cartina dello stivale, prevaleva il nostro colore, il rosso.
Che tristezza. Eppure i segnali c’erano già stati. Più volte. Qualcuno non ha voluto capire. Altri lo hanno fatto a tempo scaduto.
La sinistra che si è proposta con Grasso ha capito tardi e, forse male, che in Italia c’era bisogno di una forza plurale, composita, in grado di recuperare il malessere e orientare la protesta con metodologie nuove. L’offerta è arrivata tardi. Il campo era già occupato. E l’ offerta e le metodologie non sono apparse troppo diverse.

Tuttavia, chi ha partecipato alle nostre iniziative elettorali, ha avvertito un gran bisogno di incontrarsi, di parlare, di scambiare pensieri.
C’è una base che non si rassegna e che continua a sperare. Si sono rivisti militanti appassionati, generosi, disponibili all’impegno.
Ma basta delusioni. Errori sono stati commessi. In un tempo, seppur ristretto, si potevano definire poche regole democratiche per la linea politica, la formazione dei gruppi dirigenti, le liste dei candidati, le strutture di una forza da impegnare nella difficile competizione elettorale e, subito dopo ,nella costruzione di un nuovo Partito.
Sia chiara una cosa: una forza che di poco supera il 3% non deve avere alcuna responsabilità nella formazione del governo. Stia lontana dalle manovre. In Parlamento e nel Paese la nostra forza deve produrre proposte e battaglie politiche. E’ stato ed è un errore discutere di un argomento che riguarda i partiti che hanno avuto ben altro consenso.
Si votino le buone leggi. Si combattano quelle sbagliate. Si ritorni a comunicare con le persone. Non si disperda questo piccolo patrimonio che si è formato alle elezioni.

Il piccolo ma qualificato gruppo parlamentare può lavorare bene se recupera una disponibilità all’ascolto ed al rapporto stretto con la propria base. Deve concorrere alla formazione del nuovo soggetto ma non guidarlo. A Montecitorio bisogna fare ben altro. Per la costruzione del Partito si riparta dal lavoro dei territori e dal coinvolgimento delle formazioni intermedie, incenerite dagli slogan dei rottamatori e degli uomini soli al comando.
La sinistra deve ripartire dalle fondamenta. Dai valori e dai programmi. Deve convincere ed emozionare.
Deve restituire parola e protagonismo diretto ai giovani, alle donne, ai soggetti sociali che fanno comunità.
O lo fa e lo mette in pratica con nuove visioni etiche o, davvero, sarà la fine di una storia gloriosa.
Urge una mobilitazione per una Politica a cui sia ritornato il pensiero.

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