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Ungheria. Perché Viktor Orbán ha vinto

Traduzione dell’articolo di Andras Biro-Nagy pubblicato su Foreign Affairs con il titolo “Why Orbán Won” (10 aprile 2018).

Domenica, il primo ministro ungherese Viktor Orbán è stato rieletto per la terza volta consecutiva dopo che il suo partito di destra, Fidesz, ha conquistato il 48% del voto, abbastanza per assicurarsi la super-maggioranza di due terzi in parlamento. È stata una vittoria decisiva per Orbán, che negli ultimi anni si è scontrato pubblicamente con l’Unione Europea, diventando per molti un simbolo del nazionalismo illiberale in ascesa in tutto l’Occidente.

La vittoria di Orbán è un prodotto di diversi fattori, ma tre spiccano in particolar modo: l’indebolimento sistematico della democrazia ungherese, il successo del programma anti-immigrazione di Orbán e la frammentazione dell’opposizione.

Il primo ingrediente del successo elettorale di Fidesz è stato riscrivere le regole della democrazia ungherese. Il partito ha iniziato la propria sfilza di vittorie nel 2010, quando la disillusione degli ungheresi nei confronti del governo socialista – e più in generale per gli effetti della transizione post-comunista e la crisi finanziaria del 2008-9 – ha permesso a Fidesz di conquistare una super-maggioranza, che ha poi utilizzato per adottare una nuova costituzione, cambiare la legge elettorale, assicurarsi il controllo del governo sulla stampa indipendente e fare altre modifiche meno cospicue.

In Ungheria, le ansie economiche dell’elettorato e il malcontento generale con il sistema politico, sia prima che dopo le elezioni del 2010, hanno permesso a Fidesz d’implementare questi cambiamenti radicali senza provocare un’opposizione pubblica efficace. L’Ungheria dovrebbe quindi servire come un’importante lezione per gli altri paesi europei: le crescenti disuguaglianze e la tensione sociale possono minare le fondamenta della democrazia e far scattare una rivolta contro le élite, permettendo un’ascesa delle forze anti-establishment (e, nel caso ungherese, di quelle anti-democratiche), che promettono di spazzare via lo status quo.

Sin dalla vittoria del suo partito nel 2014, tuttavia, Orbán è diventato ancora più radicale. Quest’anno ha professato apertamente il suo desiderio di costruire uno “Stato illiberale” ed è diventato più autoritario in termini sia di politiche che di retorica. Nel 2017, ha dato il via alla guerra contro le ONG e ha adottato un’altra legge controversa che ha reso difficile per la migliore università ungherese, la Central European University, di operare nel paese. E nel suo più importante discorso, fatto durante la campagna del 2018, ha promesso di chiedere “il conto, moralmente, politicamente e legalmente” ai suoi oppositori – una minaccia che dovrebbe essere presa seriamente vista l’esperienza degli ultimi anni.

Certe politiche e una certa retorica hanno iniziato a minare la democrazia ungherese. Quattro anni fa, l’OSCE ha concluso che le elezioni nel paese erano libere ma ingiuste – gli elettori potevano votare per chi volevano, ma il campo di gioco era inclinato in favore del governo. La stessa analisi si applica alle elezioni di domenica. Agli elettori è stata offerta una scelta variegata di partiti e candidati, ma un determinato numero di fattori davano al partito al potere vantaggi iniqui. Come nel 2014, le recenti elezioni sono state caratterizzate da regolamenti elettorali che favorivano chiaramente Fidesz: una copertura stampa di parte e una linea non netta fra il partito di governo e lo Stato. […]

Un’altra chiara lezione è che l’immigrazione è stata un tema vincente per Orbán. Infatti, era così convinto che la sua posizione dura fosse sufficiente per vincere, che Fidesz ha fatto campagna esclusivamente sulla propria opposizione all’immigrazione – il Partito non ha prodotto una piattaforma elettorale, non ha fatto promesse sociali o economiche e non ha partecipato ad alcun dibattito.

[…] L’immigrazione si è rivelata uno strumento particolarmente efficace per mobilitare gli elettori meno istruiti, soprattutto nelle aree rurali e nelle città che non sono Budapest. Orbán ha persuaso con successo la sua base del fatto che solo lui e il suo governo possono proteggere il paese dall’“invasione musulmana” e dalla perniciosa influenza degli esterni, incluso Bruxelles, il miliardario statunitense nato in Ungheria George Soros, i liberali occidentali e, più di recente, le Nazioni Unite.

Nonostante le ricerche suggeriscano che gli ungheresi sono coscienti di alcuni aspetti negativi del governo di Orbán – un sondaggio di Ipsos MORI mostra che il 72% degli ungheresi è insoddisfatto del sistema sanitario del paese e, secondo l’indice di Percezione della Corruzione (CPI) di Transparency International, l’Ungheria è seconda in Europa per quanto riguarda la corruzione – per molti la paura dei migranti supera le altre preoccupazioni. Sin dal 2015, pertanto, Orbán ha abilmente sfruttato, per alimentare la paura, il vasto impero mediatico del suo partito (questo impero include tutti i mezzi di comunicazione pubblici del paese, che essenzialmente operano come un’estensione della divisione comunicativa di Fidesz). Orbán ha speso milioni di euro di soldi pubblici per diffondere la sua propaganda, utilizzando le cosiddette consultazioni nazionali – di fatto sondaggi costosi e finanziati con i soldi dei contribuenti, in cui questionari con domande manipolatorie erano inviati per posta a ogni famiglia ungherese, accompagnati da campagne di pubblica informazione (in realtà, propaganda) nei mass media.

L’esperienza degli ultimi anni mostra che queste consultazioni nazionali hanno avuto un grosso impatto sul discorso e i compartamenti pubblici. Un effetto chiaro è che per il 48% degli elettori ungheresi, domenica scorsa, la paura per l’immigrazione è risultata più importante degli scandali di corruzione e gli altri problemi delle loro vite di tutti i giorni. E dal momento in cui uomini d’affari vicini al primo ministro hanno acquistato la maggioranza dei mezzi di comunicazione ungheresi, Fidesz ha praticamente monopolizzato il flusso d’informazione diretto a quelli non impegnati e non informati. Oggi, le voci dell’opposizione hanno poche possibilità di riuscire a raggiungere quegli elettori delle campagne che non usano internet. Anche questo contribuisce al crescente divario città-campagna dell’Ungheria e quindi all’enorme successo della propaganda anti-immigrazione del governo nelle zone rurali.

Il terzo grosso fattore dietro la vittoria di Orbán è il suo successo nell’unire la destra in un momento in cui l’opposizione è debole e divisa. Orbán ha tenuto insieme il suo campo per più di 15 anni, utilizzando il nazionalismo sia economico che culturale per cementare il sostegno da parte dei due milioni e oltre di elettori che costituiscono la base di Fidesz. Nel 2009, Orbán ha presentato una prospettiva in cui Fidesz avrebbe potuto rimanere al potere per 15-20 anni se fosse stato in grado di affermarsi come la “forza politica centrale”, con l’opposizione divisa fra sinistra ed estrema destra. Dopo il collasso del Partito Socialista ungherese e l’ascesa del partito di estrema destra Jobbik nella legislatura parlamentare dal 2006 al 2010, la profezia di Orbán è diventata realtà e Fidesz è diventato l’unico grosso partito nel panorama politico ungherese.

Non solo l’opposizione del paese è divisa fra sinistra ed estrema destra, ma anche la stessa sinistra è altamente frammentata, il che significa che non c’è un singolo partito di centro-sinistra paragonabile al ruolo di Fidesz nel centro-destra. I partiti ungheresi di sinistra e liberali non hanno imparato nulla dal loro fiasco del 2014, in cui la loro incapacità di coordinarsi ha permesso a Fidesz di conquistare un’altra super-maggioranza, e quest’anno hanno collaborato ancora meno rispetto alle scorse elezioni. Per buona parte della campagna elettorale del 2018 […] i partiti di sinistra e liberali hanno lottato gli uni con gli altri su chi avrebbe dominato la sinistra in futuro, piuttosto che lavorare insieme per rimpiazzare Fidesz. […]

Nonostante la vittoria di Fidesz non è mai stata in discussione, il fatto che il partito abbia potuto conquistare un’altra super-maggioranza è colpa della mancanza di coordinamento elettorale della sinistra. Fidesz è stato quindi in grado di vincere due-terzi dei seggi in parlamento nonostante abbia ricevuto meno del 50% dei voti.

La domanda adesso è come reagirà Orbán alla sua terza vittoria consecutiva. Nulla negli ultimi otto anni suggerisce che posizioni più conciliatorie siano in agenda. […] Il governo potrebbe fare altri passi avanti nella centralizzazione riducendo il potere degli enti locali. Il potere giudiziario, che finora è riuscito a preservare la propria autonomia (la Corte Costituzionale è un’eccezione cruciale) è un altro probabile bersaglio.

C’è molta preoccupazione per tutti gli ungheresi che non sono d’accordo con le politiche di Orbán. Da una prospettiva internazionale, tuttavia, le questioni strategiche più importanti riguardano quanto alzerà il tiro Orbán nel suo attacco all’UE e nel suo ostruzionismo contro le politiche europee comuni e quante interferenze accetterà da Bruxelles – che ha intensificato le proprie critiche al suo governo negli ultimi anni. Per quanto riguarda l’Europa, la questione riguarda fino a che punto i leader continentali – soprattutto quelli nel partito europeo di Fidesz, il PPE – sopporteranno le politiche sempre più autoritarie del governo ungherese. Se il potente centro-destra dell’Unione Europea continuerà a fornire copertura politica al governo autocratico di Orbán, la netta regressione democratica dell’Ungheria, la disseminazione di disinformazione su Bruxelles e l’uso improprio dei fondi europei andranno di sicuro avanti.

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