C’è un partito in Germania che passa da un record di consensi all’altro e attualmente viaggia sicuro verso quota 20 per cento – il suo miglior risultato degli ultimi sette anni. Vi è persino la possibilità che esso partecipi alla formazione di una nuova maggioranza in Baviera – un fatto pressoché inedito per la roccaforte alpina dei “Cristianosociali” (Verdi).

No. Non sto parlando dell’ “Alternativa per la Germania” – l’ex partito anti-euro diventato negli ultimi quattro anni un bacino di raccolta per islamofobi, negazionisti, razzisti ed estremisti di destra.

Sto parlando dei Verdi.

Il partito nato dalle proteste pacifiste e antinucleariste degli anni ‘70 è al momento l’unica formazione che non ha perso elettori a vantaggio della destra populista. Anzi, negli ultimi mesi ha persino allargato il suo bacino elettorale, attraendo consensi da tutte le formazioni dello spettro democratico – persino dagli ultraconservatori della CSU.

Ma come è possibile? Come è possibile che un partito ecologista, femminista e apertamente pro-migrazione guadagni consensi nell’era di Trump, Salvini e Bolsonaro? La risposta è semplice – dice il politologo Robert Vehrkamp – perché i Verdi sono l’unico partito in Germania a non aver inseguito la deriva populista.

Vehrkamp e il suo collega Wolfgang Merkel (nessuna parentela) hanno realizzato per la Fondazione del gruppo editoriale Bertelsmann un “barometro del populismo” in Germania, con cui hanno sondato l’affinità di più di 2.000 elettori verso le posizioni dei populisti. I risultati sono piuttosto sorprendenti: da un lato gli elettori di centro dichiarano una crescente affinità con i cavalli di battaglia del populismo come il disprezzo della politica e delle élite intellettuali o la rivendicazione della volontà popolare come bussola dell’azione di governo. Dall’altro però molti elettori moderati cercano una rappresentanza politica che si distanzi chiaramente da queste posizioni.

Quasi tutti i partiti tedeschi, rilevano Vehrkamp e Merkel, hanno subito nell’ultimo anno il fascino discreto del populismo. Così, nonostante gli appelli della Cancelliera Merkel, la CDU/CSU ha adottato in maniera crescente il discours dell’ “Alternativa per la Germania”. Soprattutto i Cristianosociali hanno fatto proprio il lessico della destra populista, parlando di “Turismo dei rifugiati” e dell’immigrazione come “madre di tutti i problemi”. I risultati sono palesi: la CSU sprofonda sempre più nei sondaggi e rischia di incassare il peggior risultato elettorale della sua storia.

I socialdemocratici hanno mantenuto secondo i due politologi un’attitudine ambigua rispetto alle istanze dei populisti: terrorizzati dalla prospettiva di perdere ancora più elettori nel proprio bacino di riferimento (lavoratori dipendenti e pensionati), essi mantengono un profilo basso e volutamente indefinito – soprattutto quando si tratta di immigrazione. Il risultato: l’ex forza di governo ai tempi di Gerhard Schröder continua la sua lenta e inesorabile spirale discendente.

Ad aver abbracciato con maggior passione timori e desideri del popolo colla P maiuscola sono stati però la “Linke” – il partito di sinistra, erede della PDS dell’ex Repubblica Democratica Tedesca – e i liberali dell’FDP. Nella “Linke” questa tendenza è emersa in modo prepotente colla nascita del movimento “Aufstehen” (Alziamoci!) di Sarah Wagenknecht e Oskar Lafontaine. Il discusso movimento, che si rifà all’esperienza della “France Insoumise” di Jean-Luc Mélenchon, ha il merito di aver posto al centro del discorso politico temi spesso dimenticati dalla sinistra di governo come le sperequazioni sociali e la crisi abitativa. Allo stesso tempo Wagenknecht e soci attingono però al repertorio sovranista quando si tratta di chiedere più rigore sull’immigrazione e un freno all’integrazione europea. A differenza dei grandi partiti popolari, “Linke” e liberali sono dati in moderata crescita nei sondaggi.

I Verdi sono l’unico partito che, stando al “barometro”, si è distanziato negli ultimi mesi in maniera crescente dal populismo dilagante. Ottimisti, convintamente europeisti, legati al territorio e generalmente favorevoli a una politica migratoria dal volto umano, i Verdi si presentano come la reale alternativa al ringhioso pessimismo dell’ “Alternativa per la Germania”.

Certo, i tempi in cui i deputati Verdi scandalizzavano l’opinione pubblica entrando al Bundestag coi capelli lunghi e le scarpe da tennis sono molto lontani. Nel frattempo hanno partecipato al governo federale, hanno appoggiato l’intervento militare in Afghanistan e sono attualmente membri di nove su 16 coalizioni di governo nei parlamenti regionali, quattro delle quali insieme alla CDU.

Lo spostamento a destra non ha necessariamente giovato al partito – e fomenta tutt’oggi forti divisioni. Il solco tra la centrale di Berlino e le sezioni del Baden-Württemberg – dove i Verdi guidano il governo dal 2011 – è ad esempio pressoché incolmabile: alcune uscite del presidente regionale Kretschmann e il sindaco della città di Tubinga Boris Palmer sembrano, infatti, pescate dal repertorio della destra conservatrice.

Fino a un anno fa queste divisioni apparivano a molti – anche tra gli stessi membri – come il sintomo di un inevitabile declino. Invece sotto la guida di Kathrin-Göring Ekhardt e Cem Özdemir prima e adesso con Annalena Baerbock e Robert Habeck (sempre un uomo e una donna, per statuto) i Verdi fendono oggi le acque agitate dell’attuale legislatura come una corazzata – naturalmente a energia solare.

La ricetta del loro successo è semplice – e si può osservare anche nell’attuale campagna elettorale in Baviera. Primo: sono ottimisti. Un esempio: mentre la CSU evoca lo spauracchio di una nuova “crisi dei rifugiati”, i Verdi parlano dei benefici dell’integrazione per il mercato del lavoro. Secondo: sono pragmatici. Mentre altri partiti sembrano modellare i propri programmi sull’agenda imposta dai populisti (immigrazione e sicurezza), i Verdi fanno valere le proprie priorità – sviluppo sostenibile e società aperta. Terzo: sono aperti al dialogo. Invece di asserragliarsi su posizioni ideologiche gli eredi di Fischer e di Cohn-Bendit parlano con tutti, dai sindacati alle associazioni di imprenditori, dai comitati locali alle comunità religiose.

Certo, è facile vedere i Verdi come il partito della minoranza intellettuale e benestante, pronta a proibire i motori diesel – visto che possono permettersi le auto ibride – e ad aprire le frontiere – visto che tanto gli immigrati si concentrano tutti nei ghetti popolari. Le ragioni del loro successo appaiono però più complesse.

Come ha recentemente sottolineato uno studio (https://voxeu.org/article/rise-populism-and-collapse-left-right-paradigm) di un team di politologi francesi, le tradizionali coordinate politiche del dopoguerra sono in rapida evoluzione. Se questo sia dovuto all’ascesa dei movimenti populisti o se invece siano i populisti ad approfittare di un nuovo Zeitgeist è oggetto di dibattito. Ciò che appare evidente è che le demarcazioni tra differenti schieramenti seguono sempre meno la curva del reddito e sempre più un sistema di coordinate in cui educazione, grado di soddisfazione e fiducia nella società e nelle istituzioni costituiscono fattori interdipendenti.

Senza voler scomodare il vecchio cliché populista “destra e sinistra non esistono più” è necessario che tutti gli schieramenti politici che si richiamano a ideali di democrazia, tolleranza e progresso prendano atto dei mutamenti epocali in corso. E’ necessario che chi crede in una societá aperta e liberale riconosca nemici e alleati fuori dalle stringenti logiche di un sistema bipolare. L’esperienza dei Verdi tedeschi ci insegna: per sconfiggere il populismo bisogna saper interpretare i mutamenti della società; avere chiare priorità ma essere anche aperti al dialogo; bisogna essere radicati sul territorio ma saper anche guardare lontano. E’ un percorso lungo ed è difficile prevedere se – colle elezioni per il Parlamento Europeo alle porte – le forze progressiste sapranno compierlo in tempo.

Foto in evidenza: Annalena Baerbock e Robert Habeck, gli attuali leader dei Verdi tedeschi

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