Voglio la moschea. Qui a Firenze, in città, preferibilmente in una zona di un certo pregio e realizzata con criteri moderni e con buon gusto architettonico.
So già che anche molti amici (per tacere degli avversari nelle idee), leggendo questo incipit mi chiederebbero, educatamente perplessi: sei sicura? Ma certo che sì. Una bella, attiva, frequentata sede di fedeli non potrebbe che arricchire il generoso tessuto storico e culturale della città come Firenze, in cui si intrecciano da secoli le anime del mondo. La vorresti nel tuo quartiere?? Ma certo che sì. Una presenza del genere sarebbe senz’altro un bel contributo alla vitalità della zona (un po’ attempata, in verità) alle relazioni tra persone, moltissime delle quali sono musulmane, conducono qui la loro vita di lavoro e familiare, mandano i figli a scuola eccetera eccetera. Vicino a casa tua??? E perché no. A destra e a sinistra della mia porta ci sono una sala scommesse e un fondo commerciale desolatamente vuoto da anni. Fate voi.

Non voglio farla semplice. Nulla è semplice mai. Tanto meno cose di questo genere (fare non fare come fare dove fare una moschea) in una Italia avvelenata dall’ignoranza, dall’irresponsabilità, dal rancore dilaganti. Però mi pare che l’ora della decisione sia arrivata. Scomoda, difficile che sia, e anche tardiva, ma ineludibile. E soprattutto che questa questione rappresenti uno spartiacque, una decisione politica qualificante.

Leggo con sgomento, non posso nasconderlo, le cronache fiorentine di questi giorni. Ipotesi di destinazione proposte da un sindaco di un partito che si dice di sinistra e subito sbugiardate da un ex sindaco ed esponente politico del suo stesso partito, in piena bagarre primarie. La meschinità delle diatribe palazzinare. La raffica di no da parte di altri sindaci, politicamente omogenei ai primi due, che tirando in campo l’eterna sindrome delle periferie tiranneggiate dal capoluogo balbettano scuse e pretesti inconsistenti, la viabilità, il territorio, l’inopportunità, e trasformano il rifiuto della moschea nella vera pietra fondativa di una forte, omogenea, finalmente unanime città metropolitana.

L’altro giorno ho visto sotto il cartello stradale di una località toscana l’antica e sbiadita dicitura: Comune denuclearizzato. Firenze e i comuni contermini innalzano oggi unanimi un’insegna più attuale e brillante: Comune demoscheizzato.
Pochi, pochissimi alzano la voce per dire che questo atteggiamento è miope, irrealistico, incivile, antidemocratico, anticostituzionale. Qualcuno sottolinea incertezze e ipocrisie, qualcuno tenta, con buon senso e pudore, la carta del portafoglio: pensateci, dice, c’è un tornaconto economico, oltre che civile e sociale, in un investimento di integrazione. Dentro la città, nel suo cuore vivo, se ancora ce l’ha.

Siccome da qualche anno leggo e rileggo Enrico Berlinguer mi viene in mente quell’8 ottobre del 1983 quando il segretario del PCI andò in visita al Sacro Convento di Assisi e, forse ispirato da Giotto, ricordò il viaggio del “folleFrancesco alla corte del Sultano d’Egitto, non per fare proseliti, ma per predicare la pace. In questi anni tutti, a sinistra e a destra, si riempiono la bocca di quello che dice un altro Francesco (proprio oggi disarmato al Cairo), così come per decenni tutti, a sinistra e a destra, si sono riempiti la bocca del ruolo di Firenze città di pace e delle coraggiose e “folli” intuizioni di Giorgio La Pira. Pensi a questi esempi chi crede che impedire l’apertura di luoghi di culto costituisca un deterrente del terrorismo o della “radicalizzazione” islamica.
Bisogna aver coraggio, o cari amici miei”.

Nella foto di copertina: Firenze, piazza Santo Spirito

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