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Weidmann-Draghi, botta e risposta sulla politica monetaria della Bce

Nei giorni scorsi è riemersa la polemica del Presidente della Bundesbank, Jens Weidmann verso la politica della BCE. Prima di entrare nella questione, un riassunto, per i non esperti, del tema di cui si parla. 
Semplificando molto, per la sua politica monetaria espansiva la BCE usa due strumenti: il tasso di interesse al quale finanzia le banche e il “quantitative easing”.

Alle banche che lo chiedono vengono concessi finanziamenti senza limiti, a tasso zero o negativo (-0,40%) se l’indebitamento viene usato per dare nuovo credito a imprese e famiglie. In questo caso, una banca che chiedesse 1000 euro per fare prestiti, dopo un anno dovrà restituire alla BCE solo 996 euro. A garanzia dei prestiti le banche devono depositare in BCE l’equivalente in titoli o crediti di buona qualità. I maggiori prestiti alle banche servono a stimolare l’attività economica, gli investimenti e i consumi. L’aumento della domanda conseguente, dovrebbe spingere l’inflazione verso l’obiettivo del 2%, giudicato ottimale per la crescita armonica dell’economia e dei consumi.

Con il termine quantitative easing si intende il programma di acquisto di attività (quasi tutti titoli di Stato) da parte della BCE. Si tratta, dal gennaio 2015, di 60 miliardi al mese di acquisti della specie, fino a marzo 2016, portati a 80 miliardi fino al marzo 2017 e di nuovo a 60 miliardi per tutto il 2017. Finora, la BCE ha fatto acquisti per circa 2000 miliardi, emettendo moneta in quantità corrispondente. Da qui al prossimo dicembre, verrà creata altra liquidità per 540 miliardi. L’aumento della domanda di titoli così generata ha avuto come ovvia conseguenza l’aumento delle quotazioni dei titoli stessi e quindi la riduzione dei tassi di interesse, cioè del costo del finanziamento dei debiti pubblici e privati dei paesi dell’Eurozona.
 Questa politica espansiva aiuta i Governi, che ottengono enormi risparmi dal calo del costo del debito (un punto percentuale di minor costo del debito italiano vale, infatti, 22,5 miliardi) nonché le imprese e i privati, per effetto della riduzione degli interessi sui loro debiti.

Come sempre, c’è chi ci perde. Innanzitutto i risparmiatori e chi investe in titoli pubblici o privati. Ad esempio, coi tassi negativi (-0,65%) di un Bund a 3 anni e l’inflazione oggi vicina al 2%, i risparmiatori tedeschi soffrono di una “tosatura” reale annua dei loro risparmi del 2,5%. Di qui la protesta contro la BCE, accusata di favorire i governi “spreconi” dell’Europa del sud, alimentata da politici ed economisti nord europei. Anche i risparmiatori italiani avrebbero motivi di lamentarsi poiché un BTP di pari scadenza oggi rende zero e l’inflazione è attorno all’1,5%. Tuttavia, nell’Italia populista di oggi, chi ha risparmi preferisce stare zitto. Un’altra “vittima” della politica della BCE sono i fondi pensione, sui rendimenti dei quali (oggi bassi se non negativi) si fondano le pensioni dei lavoratori, del nord Europa, dove sono diffusi.

Queste premesse fanno comprendere le motivazioni dell’invito di Weidman, che rappresenta in pieno l’opinione pubblica tedesca, di mettere in agenda la conclusione degli stimoli monetari. “Entro aprile dell’anno prossimo – ha detto Weidmann  il quantitative easing deve essere seppellito perché reliquia di un passato turbolento che l’Eurozona si è lasciato dietro le spalle”. Non gli basta quindi la riduzione a 60 miliardi degli acquisti mensili, deliberata da Francoforte, ma chiede di decidere oggi i tempi di uscita dalle misure di aiuto.
 Intendiamoci, Weidmann sa che non è facile azzerare in un anno il QE; sarebbe uno “shock” insostenibile che contrasta con la gradualità con cui si è mossa finora la BCE.
 Decisa la replica del Presidente della BCE, Mario Draghi: “La politica monetaria non cambia, la ripresa c’è e potrebbe accelerare. Ma è troppo presto per dichiarare la vittoria sull’andamento dell’inflazione”. Anche se le economie europee sono in miglioramento, per Draghi ciò non giustifica una inversione della politica monetaria perché, senza stimoli, l’aumento dei prezzi si fermerebbe assieme alla ripresa, che non è affatto omogenea (l’Italia, con l’1% di crescita, è indietro rispetto agli altri paesi).

Verranno dunque mantenute le misure attuali sui tassi d’interesse e sugli acquisti di titoli.
 A Draghi ha contro replicato Weidmann: “Posso assolutamente ipotizzare una politica monetaria meno espansiva … L’inflazione è prevista tornare agli obiettivi della BCE sul medio termine“. Secondo “Jens il falco” più che frenare serve “togliere il piede dall’acceleratore” e la BCE deve agire affinché “le sue politiche non facciano più male che bene” in quanto tassi di interesse così bassi “implicano crescenti rischi per il sistema finanziario dell’area euro“.
 Weidmann ha ribadito la sua contrarietà verso gli acquisti massicci di titoli di Stato, temendo che così si rafforza la tendenza degli Stati ad aumentare l’indebitamento.

In questi anni in effetti, i governi dei Paesi euro hanno risparmiato quasi 1.000 miliardi di interessi grazie alla BCE, che spesso non sono stati usati per ridurre il debito, ma per aumentare le spese. Mentre la Germania ed altri paesi con gli avanzi di bilancio hanno ridotto il debito pubblico – registrando una ripresa più robusta – altri paesi (Francia, Spagna e Italia) hanno aumentato il rapporto debito/PIL. In sostanza, per Weidmann non va ritardata la fine della politica espansiva solo per la paura della sostenibilità dei conti di singoli Stati.

Infine, “bassi tassi di interesse comportano il rischio che i ministri delle Finanze si lascino cullare dall’illusione della sostenibilità del debito. Tanto più che i titoli di Stato acquistati dalla BCE vengono sottratti alla disciplina esercitata dai mercati del capitale“. Come si capisce, i tedeschi sono preoccupati del debito dell’Europa del sud, con l’Italia in testa: sanno che è impossibile salvare questi paesi in caso di shock su debiti così alti.
 E’ chiaro che per l’Italia fermare la politica della BCE farebbe crescere lo spread BTP – Bund e la spesa dello Stato; avrebbe inoltre effetti recessivi, rendendo inevitabili manovre “lacrime e sangue”.
 Però è altrettanto chiaro che rinviare il percorso di rientro da un debito, esploso in 10 anni dal 99% al 133% del PIL, rafforzerà le pressioni per porre fine agli stimoli monetari.

Le parole di Draghi hanno, per ora, messo a tacere chi vuole un rialzo dei tassi già prima della fine del QE ed hanno fatto rientrare la speculazione sui titoli di Stato dei paesi del sud Europa.
 Il dibattito continua, ma la maggioranza degli analisti appoggia più Draghi che Weidmann.
 Le analisi della BCE dimostrano che la ripresa è dovuta in gran parte alla politica monetaria e che le condizioni straordinariamente favorevoli accordate alle banche hanno consentito una notevole riduzione del costo del credito.
 L’Europa ha comunque bisogno di ridurre l’eccesso di debiti e può farlo con la crescita del reddito nominale (che comprende l’inflazione). Dunque, un’inflazione vicina al 2% ed una ripresa robusta sono essenziali per uscire dalla crisi. I dati confermano che l’obiettivo è vicino, ma l’inflazione viene in gran parte dall’energia e dai prodotti alimentari. Troppo presto per cantare vittoria.

Nella foto di copertina: Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e Mario Draghi, presidente della BCE

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