Carmine Dipietrangelo

Carmine Dipietrangelo: La sinistra non dimentichi se stessa e i suoi umili dirigenti di una volta, un patrimonio umano e civile da ricordare

L’altro giorno Emanuele Macaluso, storico dirigente del PCI, in una intervista sul Manifesto, ha affermato che “un bracciante siciliano aveva una cultura politica più alta di quella che può avere oggi un dirigente PD“. Amara considerazione. Tempi e contesti storici diversi ma differenza culturale enorme. Quanta distanza tra la cultura politica e le capacità di direzione di quei braccianti e quella di molti degli attuali dirigenti Pd, mediocri e ambiziosi, professionisti di una politica asservita sempre più ad interessi individuali o particolari. La cultura di quel bracciante siciliano a cui fa riferimento Macaluso, naturalmente, è molto simile a quella dei braccianti pugliesi e brindisini o a tutti quegli operai che diventarono dirigenti di massa, costruttori di democrazia in rappresentanza di interessi dei più deboli, portatori di visioni generali e protagonisti di lotte di emancipazione e di giustizia sociale. La loro cultura politica era il frutto di conoscenza della realtà, di un solido rapporto con il proprio mondo e con la società. Era una cultura di parte e di classe ma era cultura fatta di competenze, di sacrifici, di rigore, di coerenze forti, oltre che di principi. Da quasi analfabeti, studiando anche di notte, divennero profondi conoscitori della realtà in cui vivevano, e coltivavano, con la loro curiosità, uno sguardo lungo sul mondo. Le stesse leggi, anche quelle che non condividevano, le studiavano per potersi confrontare con quegli avversari che avevano avuto la fortuna e la condizione di censo per studiare diventando, molti di questi, amministratori locali della Democrazia Cristiana o professionisti al servizio di chi amministrava. Quei braccianti, quegli operai, in Puglia come in Sicilia, da dirigenti del PCI e del PSI hanno contribuito a costruire lo stato democratico, lo hanno difeso e lo hanno fatto accettare anche a tanti che ne subivano le ingiustizie e le discriminazioni.

In questi giorni ricorre il sessantesimo dell’eccidio del 9 settembre 1957 di San Donaci che è passato come la rivolta del vino e i cui momenti drammatici e le sollevazioni popolari represse dalla polizia di stato su ordine di chi comandava sono stati riportati in un bel libro di due giovani studiosi, Alfredo Polito e Valentina Pennetta. Contadini, coloni e braccianti con i loro dirigenti sindacali e politici si ribellarono all’ingiustizia salariale e alla speculazione sui prezzi delle uve. Insorsero e tre di loro, tra cui una donna, a San Donaci, furono vittime dell’azione repressiva della “Celere“, in base alle direttive emanate del ministero dell’interno, guidato in quegli anni dai democristiani, prima Mario Scelba e poi Ferdinando Tambroni. Nel corso di quelle manifestazioni che si svilupparono, soprattutto a Torchiarolo, San Pietro, Cellino, furono denunciati e arrestati molti lavoratori e i loro dirigenti sindacali, quasi tutti della Cgil. In quegli anni prima con le lotte per la terra, poi con gli scioperi a rovescio e, infine, con quelle contro le ingiustizie e per affermare i diritti del lavoro che lo stesso Stato postfascista era portato a reprimere, si formò una classe dirigente forte e rigorosa. Braccianti, operai, contadini, diventarono i dirigenti di una sinistra riconosciuta e rispettata. All”eccidio di San Donaci quella classe dirigente, se pur perseguitata, processata, non si fece prendere dalla rabbia e dal rancore e accettò il monito di un grande dirigente popolare come Giuseppe Di Vittorio che in quell’occasione disse: “È tempo di costruire e non di distruggere“.

Nella foto: Un titolo dell’Unità sull’eccidio di San Donaci (9 settembre 1957)

Ecco la cultura politica di quei braccianti.
Faccio parte di una generazione che ha conosciuto quei braccianti, quei coloni, li ho avuti in famiglia, con loro ho mosso i primi passi di dirigente sindacale e con loro da studente ho fatto le prime mie esperienze di lotta. Da loro ho avuto i primi insegnamenti: quello che anche nel conflitto più duro il rispetto degli avversari è un dovere, oppure quello che i conflitti si fanno non per distruggere ma per costruire. Erano semianalfabeti ma intellettualmente curiosi anche se eccessivamente diffidenti e settari: volevano sempre capire di più. Ho conosciuto braccianti, operai che nei consigli comunali, nei dibattiti, nelle piazze, erano in grado di mettere in difficoltà, funzionari, amministratori, professionisti, competenze, in materie anche difficili come l’urbanistica, la legislazione sui lavori pubblici, la contabilità e i bilanci comunali.

Una cultura politica che ha formato molti della nostra generazione, comunisti, socialisti, cattolici. Grazie a quella cultura non siamo diventati mediocri e abbiamo saputo anteporre gli interessi generali e, molte volte, anche quelli del partito, alle ambizioni e alla serenità personali e familiari. Abbiamo imparato a studiare la società e le classi, ad avere curiosità e sensibilità sociale, a confrontarci rispettando sempre le idee altrui. Quei braccianti e quella cultura vanno ricordati e rivalutati anche nella nostra provincia. La loro storia, la loro dedizione verso gli altri(per loro era quella la politica), non va dispersa perché come dice Macaluso: “la cultura politica di un bracciante di ieri era molto più alta di un dirigente pd di oggi“. Ed io aggiungo… figurati quella di altri partiti o movimenti o liste fai da te.

Sento per questo il bisogno di ricordare questi umili braccianti, contadini ed operai che in molti nostri comuni diventarono dirigenti, amministratori, sindacalisti e che hanno fatto grandi la parola e l’azione della politica e con coerenza senza mai rinunciare ai valori della propria gioventù. Sono morti tutti ma essi andrebbero ricordati alle nuove generazioni che non devono pensare che la politica sia stata sempre come quella che stanno conoscendo ai loro tempi o avere come riferimento quella mediocre rappresentata oggi dai tanti “la qualunque“.
La sinistra di questa provincia ha il dovere di fare la sua parte e di ricordarli.
Ricordarli è anche un modo per rinsaldare le radici di una sinistra che deve rinnovarsi senza rinunciare ai valori, ai principi e agli insegnamenti dei suoi umili dirigenti.

A mio modo ricordo quelli con cui ho avuto un rapporto e da cui ho imparato tanto; lo faccio in un momento in cui con tanti altri uomini e donne sostengo un progetto politico a sinistra del Pd di Renzi. Un progetto che per me deve avere l’ambizione di ricomporre quella che è la frattura creatasi tra sinistra e popolo e per ridare ad essa dirigenti popolari e non populisti, coerenti e forti cultura politica. Per questo voglio ricordare quelli del passato, e tra i tanti: Antonio Somma di Francavilla Fontana ,prima di tutti e per me, maestro di politica e di vita; Cosimo Russo, Angelo Greco, Francesco Rizzo, Luigi Montanaro, Angelo Capodieci di Mesagne; Carmine Blasi, Raffaele Palma e Pascarito di San Pietro Vernotico; De Luca, Cesano, Mazzotta, Spinosa di Cellino San Marco; Giovanni Perrucci di Oria; Gino Ingrosso di San Pancrazio; Giacomo Campanella di Torre S.S.; Maggi di San Vito dei Normanni, Giuseppe Carlucci di Carovigno; Arganese, Cavallo e Bellanova di Ceglie; Iurlaro, Morelli, Di Noi, Ostuni, Tripodi, Ortese di Brindisi; Cosimo Scalera e Giovanni Vincenti di Ostuni; Caroli di Cisternino, Turchiarulo di Fasano e, infine, Antonio D’Aluisio, segretario generale della Cgil, socialista e di cui io, da comunista, all’età di 24 anni, nella seconda metà degli anni Settanta, sono stato segretario generale aggiunto.

Nella foto di Copertina: Carmine Dipietrangelo

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