La crisi del Brasile, un bivio aperto nel futuro dell’America Latina
O LADO BRILHANTE DOS POBRES (Il lato splendente dei poveri), era titolo di una pubblicazione della Fondazione Getulio Vargas che mostrava il rapido effetto di “ascensore sociale” generato dalle politiche socio economiche dei governi Lula. Utilizzando in copertina l’icona immortale della celebre immagine dell’album “The dark side of the moon” dei Pink Floyd, la ricerca certificava gli effetti delle politiche che hanno permesso a 36 milioni di persone di uscire dalla fascia della povertà per incamminarsi verso lidi più dignitosi fatti di lavoro, istruzione, opportunità.
Si è trattato di un vero e proprio vero “caso” della storia e dell’economia contemporanea: gli anni del I e II governo Lula (2003-2011) e il I e II governo Dilma Roussef (dal 2011 ad ora) hanno prodotto non soltanto un entusiasmo crescente nel paese ma anche l’affermazione del Brasile nella geopolitica internazionale. Il Paese vede riconosciuta la propria leadership nel contesto dei governi democratici e progressisti della regione; si aggiudica l’organizzazione dei più grandi eventi sportivi come la Coppa del Mondo del 2014 e la Olimpiadi del 2016, ma soprattuto è un grande agente catalizzatore della inedita, e tanto temuta dagli Stati Uniti, “dinamica dei BRICS”.
Ma dopo un primo periodo di positivo entusiasmo, il II governo di Dilma Roussef, ha cominciato a perdere consenso e popolarità fino all’attuale crisi di governo e l’avvio della procedura di impeachment già votata positivamente dalla Camera dei Deputati.
In questi anni il paese si è trasformato, raggiungendo indici di sviluppo mai visti ma anche esprimendo una tensione sociale che dai tempi della dittatura non si era più manifestata. Oggi si è aperta una crisi le cui cause possono essere ricercate sia all’interno che all’esterno del paese e le cui ragioni sono essenzialmente politiche. Inoltre la sfavorevole congiuntura economica e la crisi finanziaria hanno aperto la strada alla più forsennata propaganda mediatica orchestrata dalle elite di destra dominanti.
Il Brasile ha smesso di crescere, ma la crisi che sta colpendo anche il gigante sudamericano, la cui crescita è oggi ironicamente rappresentata da un andamento a “volo di gallina”, è legata a diversi fattori.
Innanzitutto dagli effetti indiretti del rallentamento dell’economia cinese e dal crollo del prezzo dei principali beni esportati: petrolio (da 100 a 50 dollari al barile), materiali ferrosi (quotazione passata a 180 usd a 40 usd) e soia (-32% solo nell’ultimo anno) che pesano sulle disponibilità dello Stato. Le politiche redistributive non sono, come negli anni precedenti, oggi sufficienti a incentivare la spesa e la crescita.
La rottura della fiducia dei brasiliani verso il governo Dilma Roussef si può situare nell’estate del 2014, anno dei mondiali di calcio in Brasile, quando migliaia di persone sono scese in piazza contro l’aumento del prezzo del trasporto pubblico.
Da quel momento comincia la discesa del PT, partito travolto dall’inchiesta Lava-Jato, da alcuni paragonata, anche un po’ strumentalmente, alla “mani pulite” italiana e portata avanti dal giudice Sergio Moro, l’attuale eroe nazionale brasiliano. Moro, studioso dell’operazione giudiziaria italiana e ispirato alla figura di Antonio di Pietro (sembra stia preparando la sua entrata in politica) ha aperto la strada all’opposizione che da ben quattordici anni è rimasta fuori dal governo nonostante l’appoggio dello strapotere mediatico di cui beneficia.
I sostenitori del governo sono disorientati, impoveriti dall’inflazione e bombardati dall’informazione controllata dalle destre e spesso fuorviante.
Lo stesso procedimento di impeachment non si basa, come prevede l’ordinamento, su condanne della presidente o atti di corruzione a lei imputati ma su una presunta anomalia nei conti dello Stato legata a prestiti erogati da alcune banche statali per finanziare i programmi sociali. Una cosiddetta “pedalata fiscale”, messa in atto, in alcuni casi, anche dai governi precedenti di Lula e di Cardoso. Per questo il procedimento è considerato dal governo e da molti analisti anche internazionali come un “colpo di stato” , “un golpe”, basato su motivazioni prettamente politiche, su un rovesciamento di maggioranze parlamentari pronte a usare lo strumento dell’impeachment in modo strumentale, opportunistico e sproporzionato.
La richiesta di impeachment è stata approvata da una commissione ad hoc e poi dalla Camera, che ha già votato positivamente con la maggioranza qualificata dei due terzi, e ora va al Senato che ne deve autorizzare l’avvio. Il voto sulla eventuale destituzione sarà successivo.
Gli scenari che si aprono non sono entusiasmanti. Nel caso Dilma fosse sollevata dall’incarico non si va ad elezioni ma le subentrerebbe il vice presidente Michel Temer, personaggio poco trasparente e pluri-indagato. Il suo partito il PMDB, di area centrista (e trasformista), è stato sempre l’ago della bilancia nelle coalizioni di governo degli ultimi quarant’anni, ed ha di recente ritirato i propri numeri dalla maggioranza nella speranza di uscirne pulito ed in tempo per assumere la reggenza che potrebbe durare anche fino al 2018.
Dello stesso partito è il presidente della Camera dei Deputati Eduardo Cunha, burattinaio chiave, che ha istruito il procedimento di impedimento della presidente, ed è coinvolto in molte inchieste (prima tra tutte quella della Petrobras) e nello scandalo Panama Papers.
La posta in gioco è molto alta perché la destituzione di Dilma significherebbe consegnare nuovamente il paese all’elite dominante e ad una classe politica avventuriera e spregiudicata.
Questo paese continentale interessa molto perché possiede i giacimenti più significativi di molte risorse naturali strategiche per lo sviluppo dell’economia planetaria. Suolo, acqua, ma anche energia, e petrolio, tanto petrolio, proprio al largo delle sue coste che ospiteranno a breve le Olimpiadi di Rio de Janeiro.
Annunciata come la definitiva consacrazione della mutazione geopolitica del “paese del futuro”, oggi questa manifestazione iper-mediatica rischia di restituirci l’immagine di un paese contratto, sfiduciato, sull’orlo di una crisi politico istituzionale difficile da pronosticare solo pochi anni fa. E forse, non vera.
La celebre democrazia mediatica brasiliana, nata molto prima di Berlusconi, ha ripreso con vigore la scena cavalcando disillusioni, amarezze e smarrimenti e travolgendo anche Inacio Lula Da Silva. Il carismatico ex presidente, che operaio lo è stato davvero, di fatto era già candidato alle presidenziali del 2018.
Indebolimento valutario, rallentamento dell’economia, esaurimento della spinta motivazionale della conquista della democrazia insieme all’endemica corruzione e alla altrettanto endemica fragilità emotiva, hanno trasformato il gigante sudamericano in una tigre di carta?
È un po’ presto per dirlo e la stessa procedura politico giudiziaria dell’impeachment non è che ai primi passi. Proprio in questi giorni STF, Supremo Tribunale Federale, ha rinviato a tempi “più opportuni” la decisione sulla “nominabilitá” di Lula ministro.
La posta in gioco è molto alta: la crisi politica brasiliana e il tentativo di rilanciare ragioni e speranze per una nuova stagione di mobilitazione democratica riguarda anche noi, non come un fatto di cronaca ma come un interrogativo storico e identitario della sinistra.