– E’ stata di grande effetto la strenua difesa che il Presidente del Consiglio ed altri componenti del Governo hanno fatto, in questi giorni, dell’ormai famigerato emendamento promosso dall’ex ministro Federica Guidi. Un emendamento per consentire, riducendo al minimo le valutazioni ambientali e con il solo ok del Ministero dello Sviluppo Economico (quello della stessa Guidi), l’inserimento tra le opere strategiche per il paese di tutte le infrastrutture collaterali alla produzione energetica. Il Presidente del Consiglio, nel tentativo di giustificare e motivare questo intervento fatto per dare il via al progetto “Tempa Rossa” – così come al cosiddetto “Sblocca trivelle” – ha presentato un lungo elenco di investimenti pubblici ripartiti negli ultimi due anni e che sarebbero ferme, tra le tante ragioni, anche per l’opposizione degli enti locali.
La retorica del premier-segretario é molto diretta ed efficace. Finalmente una buona notizia: a fronte di una burocrazia lenta ed incapace, arriva un Governo che sbaraglia il fronte dei sindaci e dei presidenti di regione che vogliono sempre dire NO e sblocca investimenti fondamentali per il paese. Sono investimenti che innovano il paese o ripropongono la vecchia economia del cemento e delle fonti fossili? Sono utili o non sono utili? Sono inseriti in una nuova idea strategica di paese o sono semplicemente frutto di vecchie programmazioni? A queste domande non si cerca nemmeno la risposta, l’importante e sbloccare, avviare, muovere.
L’emendamento “Guidi” – nei fatti – serviva a mettere fuori gioco gli enti locali, che sulla base di dati forniti da Arpa erano poco propensi ad autorizzare un ulteriore incremento dell’inquinamento a Taranto. Taranto e Viggiano sono luoghi che ricorrono in cronache giudiziarie di processi aperti per disastri ambientali e la cui popolazione in questi decenni ha gradualmente aumentato la propria sensibilità al tema della sostenibilità degli interventi produttivi.
Ma Matteo Renzi ci dice: “Con quell’emendamento abbiamo sbloccato investimenti fermi da decenni”. È qui nasce un primo dubbio: se lo sblocco era necessario, se è stato fatto senza condizionamenti esterni, perché si sono accettate le dimissioni del Ministro che ha proposto il provvedimento?
Mi occupo di questo settore, da amministratore locale, da un pò di tempo. Da assessore provinciale all’ambiente di Reggio Emilia nel 2012 accompagnai i sindaci del mio territorio presso la sede della Regione Emilia-Romagna per proporre che le procedure per le autorizzazioni energetiche fossero gestite con trasparenza, coinvolgendo sin dall’inizio gli enti locali, evitando che tutto fosse in capo al solo Ministero dello Sviluppo Economico.
In quei mesi – successivi al terremoto emiliano del 2012 – si discuteva di permessi di ricerca in tutta la pianura padana e della possibile realizzazione di un grande polo di stoccaggio del gas che avrebbe trasferito nel sottosuolo di Rivara, nel bel mezzo della pianura modenese, milioni di metri cubi di gas naturale. Anche allora Il progetto veniva giustificato come una politica “per evitare di riempire i portafogli dei russi”, come direbbe oggi il Presidente del Consiglio. Il progetto Rivara venne fermato da un coro di NO arrivato dai Comuni, dalle province e dalle Regioni.
Ecco: al di là degli interessi di un Ministro che potrebbe aver gestito questioni pubbliche rispondendo ad un proprio famigliare, esiste un grave problema di merito. Una politica energetica e di uso delle risorse naturali si deve costruire insieme alle comunità locali ed alle Regioni, condividendo obiettivi e prospettive con chi è eletto dai cittadini ed accrescendo la consapevolezza collettiva degli obiettivi del paese e delle strategie per raggiungerlo.
Le indagini avviate dalla procura di Potenza – al di là del l’esito giudiziario – pongono un grave problema politico. La sinistra, infatti, é la forza politica che sulla regolazione e sulla capacità di costruire la partecipazione delle comunità locali si gioca tutto.
L’alternativa è far scrivere gli emendamenti ai lobbisti ed ai portatori di interesse, che ovviamente non si pongono come priorità il futuro delle comunità locali, dell’ecosistema (che lasciamo ai nostri figli) e di un uso equilibrato delle risorse naturali. Non si pongono certo il problema dei danni ambientali permanenti rilevati a Viggiano e denunciati dall’on.Bratti, parlamentare PD che presiede la commissione ecomafie della Camera dei Deputati, né delle tante famiglie che hanno avuto casi di malattie dovute all’inquinamento generato dal polo industriale di Taranto.
Un argomento che spesso viene usato per mettere a tappeto qualsiasi avversario è quello occupazionale. Se non si aumenta il potenziale di questa raffineria, perdiamo posti di lavoro. Se non prolunghiamo sine die le concessioni per l’estrazione di idrocarburi, sono a rischio migliaia di famiglie. Anche in questo caso l’esperienza locale mi ha fatto comprendere che la realtà è più complessa. Impedire ad un allevamento di suini di aggiungere alle proprie capacità produttive migliaia di capi, significa perdere dei posti di lavoro. Ma che dire degli agriturismi, dei ristoranti e delle attività economiche che si troverebbero invece a dover fuggire da un territorio martoriato dagli odori e dagli scarichi insostenibili di un allevamento sovradimensionato? Che dire della pesca in un mare inquinato o del danno che potrebbe avere il turismo di una costa frequentata solo da oleodotti e petroliere? Dovremmo forse parlare di “bilancio occupazione”, includendo più fattori. E solo gli enti locali possono portare la voce di attività già insediate e di possibili proposte per convertire un’industria dismessa.
Eliminare dal confronto le comunità locali significa creare corsie preferenziali ad un’economia dominata da alcuni interessi forti, senza togliere nulla della burocrazia ai tanti operatori che invece potrebbero fare investimenti meno rilevanti, ma altrattanto significativi. Purtroppo in materia di energia e di uso delle risorse naturali le principali distorsioni democratiche, che portano i promotori di interventi impattanti sul territorio a muoversi direttamente sui governanti e legislatori nazionali, derivano dai monopoli che si sono creati nel nostro paese. Vale per le trivellazioni, per le derivazioni idroelettriche, per le cave, per gli impianti di smaltimento rifiuti. Questo genera delle posizioni dominanti capaci di distorcere il mercato e favorire – come purtroppo vediamo spesso – lobby e clientele.
Un’idea di mercato decisamente poco europea e poco moderna, che purtroppo si abbina a due gravi precedenti: in 18 mesi sia il Ministro alle infrastrutture sia quello allo Sviluppo Economico sono stati costretti alle dimissioni per le loro relazioni con le lobby. Un’idea di mercato simile a quella dei repubblicani americani di Bush, i primi a garantire che le gestione dell’energia rimanesse in poche, fortunatissime, mani. Viene naturale chiedersi se il problema principale per qualsiasi investitore straniero in Italia siano le norme per tutelare l’ambiente o l’inaffidabilità della classe dirigente.
In un paese moderno, questo dovrebbe essere il punto di partenza di qualsiasi politica energetica. È un argomento meno “ambientalista” ma ha importanti ricadute ambientali perché spesso in Italia i ruoli del pubblico e del privato non sono chiari. Coloro che più si dichiarano “liberali” e che ci insegnano quanto sia importante “sbloccare il paese” per attrarre gli investimenti esteri in Italia, ce li ritroviamo poi a studiare norme per difendere e prolungare i monopoli o a difendere gli operatori del mondo delle attività estrattive che chiedono metri cubi in zone delicate dal punto di visto paesaggistico. Concorrenza giocata sulla qualità dei progetti, rottura dei monopoli, tutela dell’ambiente e coinvolgimento degli enti locali possono essere motori di uno sviluppo alternativo a quello che ci indica l’attuale guida del Governo.
Enrico Berlinguer, nel discorso ai giovani pronunciato a Milano nel 1982, disse che grazie al solare ed alle nuove tecnologie di produzione energetica si sarebbe potuto “passare dal regno della necessità a quello della libertà“. Si tratta di volontà politica e di una visione che non si fondi solo sul “cinismo della realtà” a cui spesso, in questi anni, siamo stati abituati.