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Lo sfruttamento del lavoro e il bicentenario di Marx

Il primo maggio di quest’anno è caduto in un periodo storico di grande crisi. Nel nostro paese, “l’economia politica del lavoro” – un’espressione usata da Marx – e dei lavoratori esce da una sequenza ventennale di sconfitte. Sul piano economico e sociale e dei diritti, il mondo del lavoro è messo all’angolo. Sul piano politico in tutta Europa i partiti che avrebbero dovuto rappresentare e difendere i lavoratori vivono una crisi profonda. Il motivo di questo collasso è addirittura banale: questi partiti hanno promosso politiche economiche e legislative volte a smantellare tutte le conquiste ottenute a prezzo di grandi lotte e sacrifici nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale. Questi partiti condividono la responsabilità di aver portato la democrazia sull’orlo del collasso: il fallimento della sinistra storica ha fatto sì che sono diventati i partiti della destra, anche estrema, a farsi paladini della “protezione del lavoro” e dei “ceti popolari”. I “lavoratori”, quella che un tempo si chiamava “classe operaia”, votano a destra. Certo oggi questa classe ha subito profonde trasformazioni sociologiche, che corrispondono alle trasformazioni subite dal tessuto produttivo e dalle parti costitutive di quello che Marx definiva “processo di valorizzazione”, che non è più solo aziendale, ma anche sociale. Tra queste trasformazioni spicca che la classe lavoratrice non ha più una rappresentanza nei suoi partiti tradizionali.

Il cuore della civiltà europea, la Francia, è ancor oggi portata a modello istituzionale dai leader della democrazia italiana: eppure è mancato un soffio perché ne diventasse monarca il partito più a destra presente oggi in Europa; ma anche l’europeismo francese nasconde una politica di potenza destabilizzatrice, per altro particolarmente aggressiva proprio nei confronti del nostro paese. In un momento storico in cui il paese chiede lavoro e protezione sociale, i leader della democrazia ripropongono le riforme istituzionali, cercano di condurre in porto la dissoluzione di quanto rimane dei partiti della sinistra, preparano le armi che utilizzerà proprio quella destra antidemocratica che a parole si dice di voler contrastare e nelle cui braccia si spingono i partiti con i quali invece si potrebbe costruire un compromesso riformatore e intavolare una lotta per l’egemonia.
La società del lavoro tenta di difendersi affidandosi a nuove organizzazioni politiche (il Movimento 5 Stelle e la Lega, che al loro interno riproducono la dialettica tra destra e sinistra), ma recidere una tradizione ha un costo elevatissimo: prevale la confusione e l’approssimazione e i tempi del profitto sono sempre mille volte più rapidi di quelli del lavoro e della politica che tenta di resistervi.

L’Italia è stata in prima fila in questo processo di arretramento. Non poteva essere altrimenti: essa, infatti, fu in prima fila nel mettere in discussione le radici del capitalismo occidentale. Il Paese che aveva il più grande movimento operaio organizzato dell’Occidente e che tentava una trasformazione originale della società, sia perché rispettosa delle libertà democratiche, codificate nella Costituzione italiana, sia perché disperatamente ancorata al compromesso (è appena passata la ricorrenza dell’omicidio Moro, apice della reazione in Occidente, che ha saputo sapientemente utilizzare ai propri fini l’estremismo anche di sinistra), non poteva che conoscere la più sistematica e intelligente reazione dell’Occidente.

La reazione sociale si è sviluppata anche sul piano culturale. Grazie a Gramsci, sappiamo che il dominio economico e sociale, sappiamo che la reazione qualunque forma essa assuma, ha bisogno dell’egemonia, di produrre consenso. La società occidentale, l’Italia, non poteva più essere definita una società “capitalistica”. Dopo Marx, la parola sottende non solo un’analisi, ma anche una critica. Meglio, dunque, parlare di “società di mercato”. Il mercato è neutrale: mercati ci sono stati nella preistoria, durante l’epoca classica, nel Medioevo, in età moderna. Nel mercato ci sono consumatori e produttori: l’unica lotta è quella di concorrenza. Il progresso tecnico appare un fenomeno neutrale. Se lasciata operare indisturbata, la concorrenza crea diseguaglianza, ma anche benessere per tutti ed elimina la povertà.

Con il capitalismo scompaiono anche i “capitalisti”. La parola “padrone” è bandita, scompare dal lessico quotidiano. Anni di esaltazione del lavoro e dei lavoratori (si pensi ai quadri di Guttuso o al cinema neo-realista) dovevano lasciare il posto all’esaltazione dell’imprenditore. Come creatore di ricchezza. Come “datore di lavoro”. Come figura capace di governare la società proprio perché capace di generare profitto. Tutta la società doveva essere modellata sul profitto e da colui che è in grado di crearlo ed esaltarlo. Il Paese doveva essere trasformato in un’azienda. Ogni organismo sociale deve diventare un’azienda che crea profitto: l’ospedale, la scuola, l’università, la cooperativa, la famiglia. Il processo di proletarizzazione dell’intero corpo sociale nelle sue complesse differenziazioni doveva avvenire proclamando a gran voce che la classe operaia era scomparsa, che le “tute blu” erano irrilevanti, che il conflitto di classe era un’anticaglia, che ogni forma di protezione del lavoro (a cominciare dai sindacati) era una corporazione, che le stesse classi sociali si erano disciolte in una complessità indecifrabile e liquida, che ciò che contava e andava tutelato erano sogli gli individui e i loro diritti in quanto tali.

Il genio italiano ha incarnato questa esaltazione in un tipo imprenditoriale particolare, originale. La società viene gradualmente dominata da un imprenditore legato alla politica. Si tratta di un ideal-tipo studiato da alcuni economisti del passato, come Sismondi e Pareto. La cultura economica italiana, invece, è del tutto impreparata ad analizzarlo. Mentre celebra la fine di Marx e del marxismo, mentre il socialismo realizzato crolla sotto le sue contraddizioni, mentre si inneggia alla nascita di un paese “normale” e liberal-democratico, è incapace di vedere quanto di nuovo sta accadendo sotto i suoi occhi. L’imprenditore, intanto, nega di dovere le proprie fortune anche al legame con la politica; si proclama paladino del liberalismo, trova ascolto perfino tra gli intellettuali più raffinati. E intanto, venuto meno il sistema politico che lo aveva incubato, l’imprenditore conquista lo Stato, lo dirige, tenta di trasformarlo a immagine e somiglianza del meccanismo aziendale, tenta di ridurre ad unità il pluralismo dei poteri. Addirittura i liberal-conservatori, coloro i quali erano stati in prima fila nella battaglia anticomunista, parlano per l’Italia di “sultanato”. L’imprenditore non si limita a creare i propri organi di informazione, come un tempo, ma vuole plasmare l’intera opinione pubblica: da quella politica a quella culturale, da quella colta a quella popolare. Vuole non solo il consenso, ma vuole plasmare le coscienze. I partiti diventano aziende e perfino i partiti dell’opposizione si definiscono “ditte”. I Parlamentari sono stati dei dipendenti, il Senato diviene il culmine di una carriera aziendale. La politica diventa una merce da vendere in televisione e la televisione il più potente strumento di controllo sociale. La scuola pubblica di ogni grado è sistematicamente smantellata. Per realizzare questo progetto l’imprenditore non si dà limite alcuno (da cui un conflitto permanente con la magistratura), né vi è settore industriale che si preclude di conquistare. Tenta di espandersi anche oltre confine, ma lì trova ostacoli, perché la politica si difende. E la politica degli altri paesi passa al contrattacco, insidiando, direttamente e indirettamente, con lo strumento delle scalate, il potere aziendale del nuovo padrone dell’Italia. Addomesticato, escluso dalle cariche politiche ma non dalla politica perché nessuna legge seria ed efficace sul conflitto di interessi è stata promulgata, l’imprenditore ora diventa un possibile strumento per contrastare il montante antieuropeismo dei nuovi dominatori della politica italiana. E si intravvede, perché avviata da tempo, la convergenza tra gli eredi del suo impero politico-sociale e gli eredi del partito dei lavoratori, ormai di fatto diventato un partito liberale.

Questa enorme offensiva politica, sociale, economica e culturale ha portato ad un risultato molto preciso: il concetto di sfruttamento del lavoro è diventato nebuloso.
Il concetto e la realtà di sfruttamento sono diventati concetti e realtà vaghi, certo con qualche attinenza alla realtà, ma mai inquadrati in una concezione organica della società capitalistica. Nel mercato lo sfruttamento è legato ad una qualche forma di rendita, ma quanto è difficile eliminare queste rendite e poi ci pensa il processo di distruzione creatrice incardinato sull’innovazione e sull’imprenditore. L’unica rendita ben identificabile è quella politica: la casta, che vive “succhiando” ricchezza prodotta da altri e per fini particolaristici. Il linguaggio dell’estrema destra anti-repubblicana e antidemocratica diventa quello della quotidianità politica, diventa il “politicamente corretto”.
Lo sfruttamento affiora, indefinito, in qualche occasione: nei sermoni religiosi, nelle ramanzine presidenziali, nei moralistici rammarichi, nei saccenti rimbrotti, nella ossessivamente reiterata litania sulle corporazioni e caste non meritocratiche. Lo sfruttamento si identifica con l’eccesso. Rosarno è l’eccezione da riprovare ma che dimostra la normalità del resto del paese.
Lo sfruttamento del lavoro sul piano economico-contrattuale sembra limitarsi alla condanna delle condizioni di lavoro troppo umilianti, troppo prive di diritti, troppo dipendenti da condizioni sociali di partenza che costringono ad accettare qualsivoglia condizione di lavoro. La normalità dei mercati non implica alcuno sfruttamento del lavoro. Alla normalità di un capitalismo “civile”, “socialmente responsabile”, modernamente socialdemocratico (flexsecurity), avanzato, fondato sull’innovazione e sull’automazione, che pratica una qualche forma di “alti-salari”, non corrisponde alcuno sfruttamento.

Naturalmente, la lotta per la “normalità lavorativa”, per salari decenti, per orari umani, per condizioni di lavoro sopportabili, ha contraddistinto quello che si chiama progresso civile e sociale. Ma ormai non fa più parte della coscienza collettiva il fatto che questo progresso è stato realizzato solo grazie all’esistenza di un movimento operaio organizzato e combattivo, perfino rivoluzionario, in grado, pur tra mille contraddizioni, di andare al potere nelle periferie del capitalismo. Oggi tutto questo è stato spazzato via e siamo costretti a rimpiangere (tranne i liberisti ultrà e i più irresponsabili) questa normalità.

Tuttavia oggi è indispensabile riacquisire la consapevolezza che il “movimento operaio” è stato capace di cambiare e migliorare il mondo, è stato in grado di riformare il capitalismo, solo quando ha mostrato che anche nella normalità si annida lo sfruttamento. Solo quando dall’analisi dello sfruttamento ha ricostruito il quadro del meccanismo sociale complessivo, individuando i ceti che, di volta in volta (perché essi si modificano al modificarsi del “processo lavorativo”), possono guidare la trasformazione.

Il 5 Maggio è caduto il bicentenario della nascita di Marx. Pur essendo tra i pensatori che maggiormente hanno contribuito a spiegare come funziona il capitalismo, oggi Marx è totalmente espunto dalla scienza economica e uno studente si può laureare in economia senza mai incappare nel suo nome. Lo scandalo del pensiero marxiano che lo ha fatto rimanere di fatto emarginato dalla cultura economica “borghese”, mentre è sopravvissuto nella cultura che ha tentato di emanciparsi dal capitalismo, risiede nell’analisi dello sfruttamento. E’ un’analisi che non ha inventato Marx, perché si trova in autori liberali come Smith, Ricardo, Sismondi. Marx, però, ne ha fatto il perno del suo ragionamento. L’ analisi dello sfruttamento ha una duplice funzione. Da un lato spiega le leggi del capitalismo; e nello spiegare queste leggi Marx mette anche in luce tutti gli aspetti progressivi, per semplificare potremmo dire positivi del capitalismo stesso. Perfino dell’imprenditore.

Dall’altro lato lo sfruttamento mette a fuoco gli aspetti contraddittori e negativi di questo modo di produzione. In ultima analisi ne mette in luce la storicità. Come esso ha avuto un inizio ed uno sviluppo, talmente inarrestabile da distruggere anche in forma violenta (la borghesia per Marx è la classe rivoluzionaria per eccellenza: dei processi produttivi come delle sovrastrutture) i modi di produzione precedenti, così esso potrà avere una fine. E questa fine non è utopistica, perché gli strumenti che consentono il suo superamento sono già ben visibili nel suo seno. Il dilemma tra riforme e rivoluzione, che fin dall’inizio ha contraddistinto il dibattito all’interno del movimento operaio, è dato solo dal tentativo disperato ed antistorico, perché appunto le condizioni del superamento sono date, di far sopravvivere lo sfruttamento del lavoro da parte dei ceti che ne traggono beneficio e che lo presentano come “naturale”.

Il bicentenario di Marx, in conclusione, potrebbe e dovrebbe costituire l’inizio per riprendere in mano la storia contemporanea, cioè quella che principia con la Rivoluzione francese ed arriva ai giorni nostri, per provare a ridefinire una nuova strategia capace di evitare che il mondo collassi, nuovamente, in una crisi dagli esiti imprevedibili. La scomparsa di un partito di riferimento per il mondo del lavoro rende ormai non più rimandabile questo tentativo. Mai si dovrebbe dimenticare che il “secolo breve”, il secolo del bolscevismo, che “il libro nero del comunismo”, nascono dall’implosione del mondo occidentale, nascono anche dal fallimento del riformismo: nascono con la Prima Guerra Mondiale. La cultura italiana è riuscita, con Gramsci, a darci degli strumenti imprescindibili per comprendere come ricominciare a costruire la rivoluzione in Occidente: che è anzitutto la rivoluzione del modo di produzione. La Carta Costituzionale, frutto della lotta di liberazione, fornisce gli strumenti programmatici ancor oggi validi per far progredire la democrazia oltre i limiti che gli impongono la legge del profitto e le politiche di potenza.

Luca Michelini è Professore Ordinario di Storia del Pensiero Economico, Dipartimento di Scienze Politiche, Università di Pisa

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