Abbiamo vissuto un lungo periodo in cui l’idea dominante era quella del “meno Stato e più mercato”. I molti insuccessi della politica, il cattivo funzionamento della pubblica amministrazione hanno rafforzato l’idea che meno si interviene per modificare le scelte private e meglio è.
La dottrina oggi prevalente sostiene che per uscire dalla Crisi e tornare adeguatamente a crescere sarebbero necessarie riforme volte ad introdurre maggiore flessibilità nel sistema e a ridurre il peso della PA, non solo attraverso la ricerca di una maggiore efficienza, ma ridimensionandone la presenza, specie laddove il mercato potrebbe fare da solo.

Il ragionamento è in astratto molto semplice: attraverso la maggiore efficienza e elasticità, che deriverebbe al nostro sistema produttivo dalle riforme, si acquisterebbe maggiore competitività per cui potremmo catturare parte della domanda mondiale in espansione. Si alimenterebbe un percorso virtuoso perché attraverso le maggior esportazioni si sosterrebbe la crescita dei redditi e quindi dei consumi, per cui, trainata dalla domanda estera, aumenterebbe anche quella interna che finirebbe per stimolare nuovi investimenti. Le riforme potrebbero inoltre favorire l’attrazione di investimenti esteri, oggi in parte frustrate da normative incerte ed eccessivamente vincolistiche. In sintesi l’obiettivo da perseguire sarebbe quello di migliorare il funzionamento del mercato e al contempo ridurre il peso della PA attraverso una minore imposizione fiscale.

In questo quadro idilliaco manca però un elemento: il tempo. Quanto ci vorrà affinché le riforme –ammesso che siano quelle giuste- vengano fatte e siano in grado di dispiegare i propri effetti? Se il tempo fosse troppo lungo cosa accadrà nel frattempo a tutti quei giovani che ancora oggi sono fuori dal mercato del lavoro? dovranno aspettare ancora qualche anno? E tra qualche anno saranno ancora in grado di cogliere le opportunità che eventualmente si creeranno?
Quando si avvia un processo di riforme occorre riflettere sull’obiettivo finale, ma anche sulla via tutt’altro che lineare (la cosiddetta “traversa”) necessaria per raggiungerlo. Anche perché, se questo cammino fosse troppo lungo è probabile che tutte le forze che ritengono di esserne danneggiate (e che in un processo riformatore ci sono sempre) lo ostacolino, impedendo la realizzazione stessa delle riforme. In altre parole occorre chiederci, non solo se le riforme che si intende fare siano quelle giuste, ma anche quale via si debba costruire per realizzarle; una via che richiederà molto probabilmente anche un po’ di spesa pubblica in più, sia per occupare il personale idoneo alla loro effettiva praticabilità, sia per sostenere coloro che il lavoro in questo frangente potrebbero perderlo.

Alcuni esempi circa l’importanza di associare alle riforme nuove risorse possono servire. Il successi attribuiti al Jobs Act in termini di crescita occupazionale sono in larga pare dovuti ad un’altra cosa, ovvero alla decontribuzione, quindi alle risorse pubbliche impiegate. Se volessimo realmente attuare le politiche attive previste dal Jobs Act dovremmo rafforzare i centri per l’impiego, in termini quantitativi e qualitativi, altrimenti la riforma non avrà alcun effetto; quindi, anche in questo caso, servono maggiori risorse. È quindi difficile immaginare un processo riformatore senza l’impiego di nuove risorse pubbliche.

Non solo, ma siamo certi che la competitività del paese richieda solo riforme e non anche nuovi investimenti pubblici? La nostra dotazione infrastrutturale è debole e si è ulteriormente indebolita in questi anni in cui gli investimenti pubblici sono diminuiti (di almeno 15 miliardi l’anno); non solo ma i cambiamenti climatici ed altri eventi naturali (i terremoti) hanno messo in evidenza la fragilità del nostro territorio con la conseguenza di dover pagare ogni anno somme ingenti per riparare i danni: somme distratte da investimenti certamente più redditizi e in ogni caso superiori a quanto avremmo speso con adeguate opere di sistemazione del territorio.
Siccome vi sono parti del nostro territorio che mostrano di possedere una elevata competitività potremmo trovarci di fronte al paradosso di frustrarne le potenzialità perché i necessari interventi per mantenere la funzionalità o l’ammodernamento delle infrastrutture sono di fatto negati.

La sensazione è che il mercato in questo momento non sia in grado di operare da solo e che ci vorrebbe più Stato, non solo per occuparsi delle riforme, ma anche per realizzare gli investimenti pubblici necessari e per coprire i disagi che le riforme comunque genereranno.
Visti i vincoli del fiscal compact è evidente che il discorso chiama in causa il rapporto con l’Europa; rapporto anche nell’attuale dibattito politico è colpevolmente assente o, se è presente, lo è solo nel tentativo di attribuire ad un responsabile esterno le colpe delle nostre sofferenze.
Vi sono invece alcuni principi basilari su cui dovremmo lavorare sul fronte europeo non dando per scontato che la visione basata sull’austerità e quindi sul “prima le riforme”, ad oggi vincente, lo sarà anche nel prossimo futuro.
Il primo è il principio di competitività, per cui l’Europa dovrebbe avere interesse a non perdere i suoi soggetti più competitivi e dinamici indipendentemente dal paese in cui risiedono; invece li perderebbe senza un adeguato sostegno agli investimenti pubblici nei territori in cui essi si trovano.
Il secondo è il principio di solidarietà per cui un cittadino europeo non può essere discriminato sulla base del paese in cui risiede: fenomeni come la povertà, la lotta alla disoccupazione dovrebbero basarsi su risorse comuni europee, salvo assistere al paradosso che i paesi che hanno su questi fronti maggiori problemi hanno anche minori risorse per affrontarli. Si istaurerebbe (o meglio si sta istaurando) una spirale perversa da cui sarebbe difficile uscire, e che potrebbe mettere in discussione il senso di appartenenza alla comunità europea e quindi il suo stesso futuro.

Nella foto:  Il Quarto Stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo

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