Parliamoci chiaro: la discussione sul 2,4% di sforamento del rapporto deficit/Pil, o 1,6% o 2,5% o 3%, rischia di essere un esercizio fuorviante. Fermo restando il peso del debito pubblico italiano, il più alto dopo quello greco in Europa, che non può non essere considerato un problema, il vero punto sta nel prendere atto che anni di austerità, politiche liberiste perseguite con l’intento di migliorare le condizioni del debito, lo hanno al contrario fatto crescere, mentre contemporaneamente devastavano la vita di uomini e donne.
Tra il 2007 e il 2017 il rapporto debito pubblico-Pil è cresciuto in maniera consistente da circa 100% a 133% nel 2017. Sono gli anni di politiche liberiste, di austerità e schiacciamento dei diritti del lavoro, con riforme che hanno distrutto certezze e sicurezze degli italiani, con un peggioramento delle loro condizioni di vita e della loro serenità. Qualcuno sostiene che non si è fatto abbastanza, ma in realtà non è così. Solo per fare alcuni esempi: la riforma delle pensioni, misure quali il blocco dei contratti pubblici (tre milioni e mezzo di dipendenti) per otto anni, la non indicizzazione delle pensioni, la precarizzazione del lavoro e la riduzione dei salari hanno ridotto le capacità di spesa degli italiani non sui beni superflui, ma per le stesse spese alimentari. I tagli alla sanità hanno spostato risorse dalle tasche dei cittadini su un “welfare a pagamento” che ha impoverito i cittadini; la spese pubblica in servizi e protezione sociale è passata da circa 805 a 780 miliardi. Sono stati effettuati tagli sulla scuola, sulla cultura, sulla ricerca e sulla sanità. La diseguaglianza è cresciuta in maniera drammatica, come non si vedeva da tempo e come testimonia la stessa Banca d’Italia. Gli investimenti pubblici che avevano raggiunto circa 55 miliardi tra il 2008 e il 2009 sono crollati a 35 nel 2015. La disoccupazione giovanile che nel 2008 era di poco superiore al 15% ha superato il 30%. La crisi italiana in confronto con gli altri paesi europei segna il passo: cresciamo meno e tutti i nostri indicatori economici sono peggiori di quelli degli altri paesi dell’UE. Non credo serva altro per dire che le politiche dell’ultimo decennio hanno fatto arretrare il paese.
Dunque la scelta del 2,4% in sé non è criticabile a priori. Una manovra che consentisse una crescita del PIL ben oltre quel miserevole 1,2% previsto ridimensionerebbe in maniera considerevole quel dato. Dunque, sono i contenuti della manovra economica che andranno giudicati e non quel parametro; sono gli effettivi benefici che verranno ai cittadini che vanno considerati. La risposta del PD (la manovra determinerà in tre anni 100 miliardi di debito) non risponde ad una logica liberista, ma alla propaganda e anche piuttosto sciocca. Quello che definirà la qualità della manovra saranno le cose concrete di cui per ora abbiamo solo i titoli. Ed è sui provvedimenti che la sinistra dovrebbe contrapporre idee e proposte in modo da rendere chiaro il suo punto di vista. Il che non vuol dire sposare qualsiasi proposta, ma neanche demonizzare interventi che, se fatti con grande attenzione e competenza, potrebbero rappresentare un elemento positivo per i cittadini e l’economia.
Il reddito di cittadinanza sul piano della giustizia sociale è un provvedimento significativo perché va a ridurre le condizioni di povertà e miseria di tanta parte della popolazione. L’auspicio è che non sia un provvedimento razzista (e incostituzionale) prevedendo l’esclusione di quel 1.780.000 stranieri poveri, regolari e residenti nel nostro paese imponendo follie tipo 10 anni di residenza, come se un povero residente da 5 anni non avesse alcun diritto. Sul piano economico l’idea che questo provvedimento possa sostenere i consumi interni e che di questo possano beneficiare le imprese italiane lascia qualche dubbio. In un mondo globalizzato e in cui le merci circolano a condizione di prezzi molto diverse è probabile che i meno abbienti si orientino verso prodotti a basso costo di produzione asiatica e che il beneficio si limiti al settore commerciale. Resta il fatto che non è chiaro il suo funzionamento e quando e come si concretizzerà la riforma dei centri per l’impiego. Si ventila l’ipotesi di accreditare sulla tessera sanitaria l’importo, trasformandola in una sorta di bancomat. Meccanismi troppo complessi potrebbero rendere ingestibile e onerosa la gestione della carta fino a renderla poco utilizzabile. Ma dietro tante ipotesi si cela l’idea che ci potrà essere chi potrà approfittarne e già questo dovrebbe spingere a qualche riflessione quando si confronti quanto si fa in Italia con quanto accade in altri paesi europei. Interessante, da questo punto di vista l’ipotesi di accompagnare il reddito di cittadinanza con lo svolgimento di un servizio di pubblica utilità, dal quale andrebbe comunque esclusa la sicurezza. Infine, ci deve essere chiarezza sul rapporto tra indennità di disoccupazione, cassa integrazione speciale e reddito di cittadinanza e anche qui le cose non sono chiare.
Anche le modifiche della legge Fornero vanno incontro ad una richiesta di parte del popolo italiano, ma qui non è chiaro il meccanismo per la determinazione della quota 100 e quali saranno le condizioni economiche (calcolo tutto contributivo con penalizzazione) con una più o meno consistente riduzione sul livello delle pensioni. E resta ambiguo il destino dell’Ape social e, di conseguenza, il tema dei lavori usuranti. C’è poi da considerare la questione dei giovani e del loro futuro pensionistico che nelle attuali proposte sono completamente dimenticate. Bene ha fatto il sindacato a sollevare la questione.
Due cose sembrano però fortemente criticabili. In primis la politica fiscale con la proposta della flat tax, che sembra soddisfare le esigenze delle piccole partite Iva, e non avrà alcun effetto sulla crescita. Inoltre la ventilata riduzione delle detrazioni per i mutui e le spese sanitarie rappresentano una punizione verso i contribuenti onesti, quelli che fanno la dichiarazione dei redditi e versano regolarmente le tasse. E soprattutto di chi è obbligato a ricorrere a spese mediche importanti, quali quelle odontoiatriche o visite specialistiche alle quali bisogna spesso ricorrere in intramoenia. La politica fiscale prevede anche una sorta di condono che, nelle intenzioni della Lega, assomiglia molto ad un condono. Ma qui la sinistra non si dovrebbe limitare a gridare allo scandalo. Intanto serve una proposta di redifinizione delle aliquote, in modo da ridurre la pressione fiscale sui redditi medio bassi. Poi ragionare su una tassa sui grandi patrimoni. E infine, definire una vera pace fiscale per quelle imprese che hanno effettivamente dichiarato le imposte da pagare e sono state poi impossibilitate a farlo.
Non sono chiare le linee su cui si muoverà la politica di investimenti e quale sia la politica industriale del governo. Il Mezzogiorno è assolutamente scomparso dalla manovra (ma questo era già accaduto con i governi Renzi e Gentiloni) mentre invece è qui che dovrebbero concentrarsi gli investimenti pubblici. Le politiche di coesione sembrano non interessare questo governo, tanto da aver collocato in un ministero importante la piccola Heidi, la pentastellata Barbara Lezzi.
Se la sinistra vuole davvero riaprire un ragionamento con il popolo italiano, con i lavoratori, deve entrare nel merito, incalzare il governo e sfidarlo sul terreno delle cose da fare, abbandonando il punto di vista liberista e uscendo dalla filosofia secondo cui l’austerità, il contenimento della spesa, le politiche della famiglia e quelle assistenzialiste degli 80 euro siano le uniche possibili.
Se si interviene con serietà sulle pensioni minime, sull’uscita dal lavoro, sui diritti dei lavoratori e le adeguate politiche di difesa davanti alle crisi industriali; se si combatte la povertà, se si promuovono forti investimenti non in grandi opere, ma in una azione di messa in sicurezza del paese (sistemazione idrogeologica, scuole e ospedali, aree urbane e infrastrutture al sud) e in formazione e ricerca, allora il ragionamento cambia e il tema del 2,4% diventa marginale. Si esce infatti dalla logica del soddisfare il proprio elettorato e si entra in quella del far crescere il paese, creare occupazione, migliorare la vita e il futuro dei giovani con politiche che sostengono la crescita magari superiore a quel triste 1,2% previsto (senza dover arrivare al 3% ipotizzato forse un po’ propagandisticamente da Savona). E’ questo che può e deve dire la sinistra e anche il PD: la difesa di quello che si è fatto, soprattutto in economia, non serve a nulla. La critica radicale al renzismo e non solo (anche Bersani ha delle responsablità rispetto alla piena fiducia nel mercato predicata lungamente) per scelte scellerate come il jobs act o la buona scuola, sono la premessa per ricreare uno spirito unitario che non vuol dire diventare uguali, ma trovare un minimo comun denominatore per presentarsi al paese come soggetto di governo.