JO COX22

Ritrovare il simile nel dissimile: la missione della sinistra per superare i nazionalismi

Jo Cox era una giovane donna, laburista, europeista, impegnata al servizio del prossimo. Ogni morte, specialmente se violenta, colpisce e addolora in modo unico, ma questa ci fa riscoprire drammaticamente vulnerabili: colpiti dove l’umanità sembra esprimersi con uno dei suoi volti migliori. Come i ragazzi del Bataclan di Parigi, come i bambini morti in Pakistan nell’attentato ai giardinetti pubblici dove giocavano.

L’attentatore avrebbe urlato “Britain first”: Prima la Gran Bretagna. La chiamano in queste ore follia nazionalista, terrore estremista.
E pure non basta l’indignazione, non basta lo sdegno né il compianto se si vuole costruire una società dove il conflitto non si presenti sotto forma di xenofobia e intolleranza.

Dopo la famosa “fine della storia” la narrazione pubblica nella quale la società del cosiddetto primo mondo è stata immersa è stata quella del superamento del conflitto. Terminata la lotta di classe, ritiratesi le ideologie, non rimaneva altro spazio politico alla comunità che non fosse quello dell’amministrazione delle ricchezze prodotte dal libero mercato e del godimento dello sviluppo derivato dal sistema capitalistico. Eliminate le frontiere allo scambio di merci e risorse, si sono abbattute contestualmente quelle alla mobilità delle persone e delle informazioni. Complici lo sviluppo tecnologico e i meccanismi della globalizzazione, il mondo è sembrato restringersi. Mentre la realtà diveniva più complessa e sempre più accelerata nei suoi processi, lo spazio di manovra politica diveniva sempre più angusto.

In poco meno di quarant’anni la società, sempre più diseguale a causa delle ripercussioni sociali del sistema economico-finanziario, ha subito profondi cambiamenti nei propri assetti. Sintetizzando e con qualche semplificazione, una parte (il famoso 99%) dei cittadini ha subito dalla globalizzazione un’erosione dei propri diritti immateriali e dei propri standard di vita materiali; mentre si è formata un’élite cosmopolita sovranazionale che può usufruire a pieno di tutte le ricchezze in termini di risorse ed esperienze che l’integrazione mondiale ha offerto.

La politica democratica, nata per coinvolgere nel governo la più ampia parte della cittadinanza, è progressivamente diventata appannaggio di quella ristretta élite. Tanto più potente quanto più slegata dalle dinamiche strettamente territoriali degli stati nazionali. Parallelamente, svuotandosi di rilevanza i luoghi di decisione democratica, anche la dialettica fra i partiti e gli schieramenti è andata perdendo la tradizionale polarizzazione fra coloro che si definiscono “conservatori” e coloro che si definiscono “progressisti”.

La sinistra europea e più in generale occidentale, in particolare, ha messo fra parentesi il conflitto sociale per diversi decenni. Quello stesso conflitto sociale che aveva dato vita a tutti i grandi partiti socialisti, compreso il Labour Party Inglese. Anche dalle file dello stesso Labour, c’è stato chi ha professato la correttezza del restringimento dello spazio di manovra della politica in campo economico, eliminando così una delle tre leve della sovranità fondamentali (economica, militare, culturale). Chi ha sostenuto che i ricchi e i potenti avessero gli stessi interessi dei lavoratori della classe media, e che pertanto costoro non avrebbero avuto alcuna esigenza di organizzarsi contro di essi.

Mettendo fra parentesi il conflitto sociale si è però acuita una tendenza contestuale che ha eguale radice ma diverso segno: alla spoliticizzazione della società causata dall’impossibilità di incidere attivamente sui propri governi è corrisposto un egualmente vigoroso ritorno alle identità prepolitiche. Di fronte all’insicurezza esistenziale causata dalla perdita di tutele sul posto di lavoro, di appetibilità delle organizzazioni dei corpi intermedi, dalla crescente mobilità lavorativa, geografica e di formazione, si è cercato rifugio nella tradizione, nel nazionalismo, nella fede religiosa. Il conflitto si è quindi rivolto allo straniero, al diverso.
La tesi dello scontro di civiltà di huntingtoniana memoria ha avuto un enorme successo poiché offre un efficace mito politico al servizio di quegli esponenti pubblici che vogliano mascherare la propria insignificanza. Per farlo, essi propongono di utilizzare l’unica leva della sovranità rimasta appannaggio del governo: quella della difesa.

L’illusione che possano esistere “interessi britannici” o “interessi italiani” da difendere, estremizzata nell’odio che ha portato all’uccisione di Jo Cox, si istanzia tutta nell’esigenza di giustificare l’utilizzo a vario titolo di quella leva. Inoltre, si propaga senza ostacoli nel vuoto della politica che non sa come tornare ad appropriarsi delle altre due.
D’altro canto, la scommessa di parti di “establishment” politico conservatore e progressista di perpetuarsi attraverso la “santa alleanza” dei democratici contro i populisti in odore di fascismo si scioglie oggi come neve al sole. Per salvare la democrazia, il pluralismo, il multiculturalismo ricchezza delle nostre comunità, non basta l’evocazione della bellezza della democrazia tout court, non basta (più) la tradizionale dialettica di alternanza, non basta più il cosmopolitismo naif. Troppo forte è diventato il malessere sociale, troppo profonda la disgregazione della società in atomi che non si riconoscono uguali pur nella stessa condizione di sofferenza. Troppo marcio è quel sistema politico-economico che ha portato alla crisi del 2008, che ha portato alla destabilizzazione del Medio Oriente, che ci ha consegnato un mondo sull’orlo del collasso ambientale, e che ancora oggi non accenna a riformarsi.

In tutto l’Occidente la domanda di cambiamento sta assumendo le sembianze dell’odio razziale, del fondamentalismo religioso e del fanatismo nazionalista anche a causa del fatto che nessuno o quasi si stia preoccupando di invertire radicalmente le politiche economiche che aggravano il malessere sociale in seno al quale cresce il consenso delle forze di estrema destra. Inoltre, ancor più grave, quella parte della classe politica che si dichiara di sinistra non si è ancora assunta seriamente il compito storico di riorganizzare e ripoliticizzare i ceti medio-bassi che quel malessere lo vivono, per utilizzare il loro consenso contro gli interessi di quello che – con un anglismo efficace – si chiama “Big Money”.

Jo Cox è morta mentre faceva politica: con la sua attività si è spesa per la sua gente che era lì a sentirla il giorno della tragedia. Fra le cose che avrebbe voluto, c’è anche la permanenza della Gran Bretagna in Europa. Mentre i mercati, nel nome dei quali si sono promosse riforme regressive in tutto il vecchio continente, sembrano festeggiare la sua morte con un significativo rialzo in borsa che potrebbe rendere più difficile l’esito “brexit” del referendum il 23 Giugno, una riflessione ulteriore sulle cause di tragedie come questa è necessaria.

Se non si vuole cedere alla sola commemorazione è, quindi, ora anche di agire contro i fanatismi e le violenze. Un sentiero sottile e di difficile percorrenza si snoda di fronte alle forze progressiste europee: tornare ad essere internazionaliste, organizzando nell’ottica di una lotta internazionale i lavoratori, i precari, gli studenti e gli ultimi a prescindere dalle appartenenze nazionali, di genere, di orientamento sessuale ecc. Ma soprattutto farlo tracciando una netta linea di demarcazione fra sé, i propri riferimenti sociali e i propri nemici.

La linea è inequivocabilmente una barricata: quella del conflitto sociale, che se compreso, interpretato, governato politicamente è la colonna vertebrale della dialettica democratica. Ma se occultato, respinto, inascoltato troppo spesso si trasforma in malessere al servizio del demagogo e del politico spregiudicato di turno, pronto ad eccitare gli istinti peggiori dell’uomo. Il mondo è per sua natura conflittuale: non è facendo finta che questo non esista che esso viene meno. È piuttosto necessario preoccuparsi per innaturali calme prima della tempesta e per pericolosi diversivi come la mediatizzazione della paura. Cameron e Corbyn erano insieme alle commemorazioni di Jo; insieme come è sano si sia in questi momenti, insieme come si può stare nelle tragedie o nei festeggiamenti solo se ci si è lealmente divisi il resto del tempo. Senza questa divisione ogni liberaldemocrazia finisce per esser preda della dinamica nella quale si oppongono variabili prepolitiche che la dequalificano e condannano.

Lo scriveva già Eraclito e chiunque faccia politica non può mai dimenticarlo:

Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.

Commenti