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Brexit, banche e la tempesta sull’Italia

Col Brexit le nubi che si addensavano sul cielo italiano hanno portato tempesta. Non tanto sui titoli di Stato, protetti dagli interventi coordinati di BCE e delle Banche Centrali nazionali, quanto sulla Borsa e sui titoli bancari.
Pressioni enormi su tutte le banche europee ma per le nostre la Brexit si aggiunge alle tensioni esistenti; anche se con un certo recupero, la speculazione si è buttata dentro a capofitto con ingenti vendite allo scoperto. Si vendono, cioè, oggi titoli che non si possiedono, sperando che alla data della consegna valgano di meno per chiudere l’operazione in guadagno.
Sembrano dimenticate le crisi passate e i disastri di fine 2015, nati dal mix esplosivo della “risoluzione” delle 4 banche, del “bail in” e delle reazioni incongrue di politici e media. Il dopo Brexit sta deprimendo le nostre banche oltre ogni logica.
Di nuovo ferve il dibattito su “che fare”, sull’onda della nuova emergenza.

Prima di parlare di soluzioni possibili, è utile capire come si è arrivati a questo punto. Per quale motivo, cioè, il sistema bancario italiano, considerato forte almeno fino alla fine degli anni ’90, sia entrato in crisi, nonostante gli eccezionali apporti di capitale dell’ultimo decennio.

LE RESPONSABILITA’ – Partendo dalle più gravi, le responsabilità sono da ascrivere:

– ai responsabili della gestione scorretta delle banche, come emerso in tanti procedimenti giudiziari;

– all’accettazione acritica di scelte aziendali sbagliate, per interessi personali, leggerezza e anche per paura, di consiglieri di amministrazione, sindaci, organi di controllo interno e personale interno;
– all’inadeguato controllo delle società di rating e di certificazione di bilancio che hanno avallato le decisioni;
– alla crisi economica;
Senza dimenticare i controllori e i governi che non hanno colto per tempo la gravità dei problemi.- a chi ha gestito spregiudicatamente le banche, anche consumando reati, in forma organizzata e spicciola, come emerso in tanti procedimenti giudiziari;

Il tutto nasce nel solco delle ideologie liberiste di matrice anglosassone, volte a sciogliere l’attività imprenditoriale da regole e controlli. Gli anni del passaggio al modello di banca universale, del patrimonio considerato elemento secondario rispetto alla “creazione di valore per gli azionisti”, delle fusioni transnazionali che hanno creato mostri bancari sempre più grossi e meno controllabili dalle autorità nazionali. Troppo grandi per fallire, troppo vasti nella loro operatività in paesi lontani perché i controllori potessero comprendere in tempo cosa stava accadendo all’interno dei conglomerati.

I RESPONSABILI DELLE SOFFERENZE – Il punto cruciale, oggi, è che le sofferenze delle banche italiane sono altissime. Ma chi ha finanziato per miliardi aziende senza prospettive, incassando stipendi e bonus milionari, può candidarsi oggi a gestire il cambiamento?
Come si poteva pensare, ad esempio, che imprese produttrici di pelati e simili (Cirio), di latte (Parmalat) o di voli aerei costosissimi (Alitalia) potessero produrre cash flow idonei a consentire il rimborso di interessi e capitale sui loro debiti stratosferici? Come si è potuta finanziare senza limiti l’edilizia in una Italia senza crescita demografica ed economica?

CREDITI DETERIORATI PER 200 MILIARDI – I rischi però non stanno solo nelle sofferenze, ma anche negli altri crediti deteriorati.
Al netto delle svalutazioni già apportate dalle banche, infatti, il valore dei crediti deteriorati è di quasi 200 miliardi. Di questi, circa 88 miliardi sono le sofferenze nette (210 miliardi il valore lordo); 112 miliardi sono invece debiti di clienti in difficoltà temporanea, con rischi di peggioramento e quindi con necessità di accantonamenti, seppur minori delle sofferenze.

La posizione delle banche, chiaramente espressa dall’AD di Banca Intesa, Carlo Messina, è che il Fondo Atlante (irrobustito con nuovi ingenti fondi, avendo esaurito già gran parte delle risorse per acquisire Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca) deve “lavorare sulle sofferenze … a valori prossimi a quelli di carico”.

A questo punto serve spiegare il senso di tale dichiarazione ai non addetti ai lavori.

Le sofferenze sono i crediti di clienti in dissesto per i quali le banche non riescono a recuperare in tutto o in parte quanto prestato. In bilancio vengono svalutati, cioè gli istituti coprono le perdite ritenute probabili. Come detto, le banche italiane hanno 88 miliardi netti di sofferenze, rivenienti dalla svalutazione del 58% di 210 miliardi di crediti originari. Ciò significa che in media le banche pensano di recuperare 42€ ogni 100€ di sofferenze.
Quando Messina dice che Atlante deve operare per collocarli a valori vicini a quelli di carico, intende che qualcuno (assistito dalla garanzia statale, di Atlante o di chi altro) dovrebbe comprare dalle banche le sofferenze a 35-40€ per ogni 100€ di valore lordo. Però, Atlante ha quasi finito i fondi e non può intervenire su sofferenze o altri crediti deteriorati, se non per un piccolo ammontare. Rimane lo Stato, direttamente o tramite Cassa depositi e Prestiti (che usa il risparmio postale), attraverso una “bad bank” pubblica o para pubblica (operazione comunque non facile e da sottoporre alla Commissione Europea) che dovrebbe assumersi il rischio alla lunga di perderci. Messina non lo dice espressamente ma lo lascia intendere: l’intervento pubblico deve avvenire senza mettere in discussione la proprietà delle banche, gli emolumenti dei manager e magari anche i futuri dividendi agli azionisti.
Ricordo che le sofferenze delle 4 banche fallite vennero valutate al 17,50% all’atto della risoluzione, poi aumentato al 22,3% con un esame più approfondito.
E’ pur vero che gran parte delle sofferenze sono assistite da garanzie reali, ma nella situazione attuale del mercato immobiliare, tali garanzie sono insufficienti a garantire il recupero.
Servono quindi alcune decine di miliardi per coprire la differenza tra i valori di bilancio e quelli di mercato prima di cederle i crediti deteriorati. Servono poi altri miliardi per mettere in sicurezza le banche (grandi e piccole) ricapitalizzandole.
In mancanza di privati vogliosi di investire nelle banche (che ai prezzi attuali possono essere un affare) pure tali fondi dovranno uscire, di riffe o di raffe, dal bilancio pubblico o di enti para pubblici (la solita CDP, le gestioni previdenziali, etc.).
Risorse importanti, da mettere in modo diretto o surrettizio a carico dei cittadini, con la complicazione ulteriore dei vincoli del bilancio pubblico, del “bail in” e delle norme contro gli aiuti di Stato. Le norme richiamate ieri sera dalla Cancelliera Merkel e che hanno causato la reazione stizzita del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, evidentemente pronto a lanciare un intervento a tutela dei sistema bancario senza cadere sui vincoli sugli aiuti di stato e sul “bail in”.

Prima però di concentrarsi sul futuro, bisogna ricordare errori e responsabilità del passato e sanzionare chi ha agito scorrettamente. Bisogna avviare un cambiamento profondo in tutto il sistema perché sarebbe del tutto incongruo che la soluzione dei problemi del sistema bancario venga affidata a chi tali problemi li ha creati.

Mettere la mani in tasca ai contribuenti per salvare le banche è politicamente poco accettabile in condizioni normali; diventa un autentico disastro, duramente sanzionato dagli elettori, se i responsabili dei problemi delle banche resteranno impuniti e magari saranno gli stessi cui verrà richiesto di risanare il sistema.

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